Nuova Zelanda, rivoluzione open source: no ai brevetti sul software

Il software libero è sempre più una realtà. L’azione di disturbo delle multinazionali a difesa dei loro interessi industriali vede spesso gli Stati complici, più o meno involontari, di una serie di investimenti in tecnologie proprietarie quantomeno discutibili. Ma il vento sembra cambiare. La Nuova Zelanda ha, infatti, approvato una serie di misure legislative dirette ad impedire la possibilità di brevettare qualsivoglia software modificato.

Una rivoluzione silenziosa che nasce dunque dal diritto, con una legislazione simile a quella Europea ma molto più chiara ed applicabile. Finalmente una legge che dice a chiare lettere quello che è possibile brevettare e cosa no. Le grandi multinazionali titolari di software proprietari devono il loro posizionamento sul mercato a furbesche acquisizioni di importanti codici dei programmatori più titolati. Il passo successivo è stato poi la modifica dei prodotti acquisiti ed il successivo brevetto. Il risultato è ciò che osserviamo oggi: vere e proprie rendite di posizione, in grado di generare royalties miliardarie sulla base di architetture giuridiche e non certo di performance univocamente assolute.

La rivoluzione neozelandese si compone di 3 articoli di legge:

(ART.1) Un programma per computer non è un’invenzione né un processo industriale per lo scopo di questo atto.
(ART.2) Il comma (1) impedisce a qualsiasi cosa di essere un’invenzione o processo industriale per gli scopi di questo Atto solo finché una affermazione di brevetto o una richiesta di brevetto riguardano un programma per computer e null’altro.
(ART.3) Un’affermazione di brevetto o una richiesta di brevetto riguardano un programma per computer e null’altro se la ragion d’essere e l’esistenza dell’invenzione dipendono unicamente dalla sua essenza di programma per computer in quanto tale.

Dunque, se i software non sono legati ad hardware di cui sono parte integrante e caratterizzante, ma mera applicazione , in quanto tale non possono essere brevettati. Un auto che attraverso un software potesse alimentarsi ad acqua , sarebbe ad esempio oggetto di brevetto. Il solo programma di “trasformazione” energetica non sarebbe invece brevettabile. Mentre in Europa diverse correnti di pensiero sembrano seguire l’esempio neozelandese, negli Stati Uniti le restrizioni ed i brevetti sul software sono molto restrittivi lo sviluppo e la libera innovazione vanno sempre dietro alle grandi multinazionali del software proprietario legando mani e piedi i poveri utenti inconsapevoli.

In Italia i nuovi sviluppi sul software libero ed Open Source per le Pubbliche Amministrazioni sono molto interessanti. Proprio la PA, recentemente vincolata nelle gare a prendere in considerazione anche l’open source, potrebbe rappresentare l’esempio più eclatante di possibile ottimizzazione del rapporto qualità/prezzo attraverso la libera condivisione. Occorre però una vera e propria rivoluzione culturale. Open Source non significa gratuito o meno professionale significa semplicemente rispondente alla licenza GPL ed alle sue molteplici varianti. Nelle Scuole e nelle Università la tradizionale manifestazione denominata Linux Day sembra aver avviato un serio processo di valutazione critica dei limiti paradossali ed evidenti delle soluzioni proprietarie. Le PMI sono invece ancorate a soluzioni proprietarie che di business hanno esclusivamente il prezzo ma non la resa. Riusciranno le esperienze internazionali ad avviare il tanto auspicato effetto traino anche per il nostro Paese ? La Nuova Zelanda non è troppo lontana, se l’obiettivo è disporre di alta tecnologia con investimenti minimi.

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