Come funzionano le Filiere, dal produttore al consumatore

Come funziona una filiera? Quanti passaggi compie un prodotto per arrivare dal produttore al consumatore? Molti, spesso moltissimi. Per non parlare delle attività, delle risorse (anche umane), delle materie prime e delle tecnologie necessarie a portare questo o quel bene nella vita quotidiana di ognuno.
Basti pensare alla pasta: dietro un pacco di fusilli, per esempio, ci sono agricoltori, molitori, trasportatori, operai, pastifici, magazzinieri. E, ancora, i fornitori del cartoncino, dietro i quali ci sono a loro volta i produttori della carta e dell’inchiostro. Un vero e proprio mondo che in economia prende il nome di filiera, un termine ormai molto utilizzato ma spesso poco compreso nell’interezza della sua importanza, che subito rimanda ad un altro termine anch’esso sempre più importante: quello di tracciabilità.

Una filiera può essere agro-alimentare, tecnologica, e industriale, semplice o complessa, lunga o corta. “In senso più stretto, si intende l’insieme delle aziende che concorrono alla catena di fornitura di un dato prodotto”.

Il tipo di filiera che più interessa i consumatori e catalizza l’attenzione è, ovviamente, quella alimentare.

Episodi come quello della diossina, della mucca pazza e, da ultimo, della carne di cavallo spacciata per carne di manzo, stanno aumentando la necessità di conoscere cosa e chi c’è dietro un prodotto alimentare.
Peccato che di leggi in materia ce ne siano molto poche e che solo ultimamente, data la risonanza mediatica prodotta dallo scandalo delle carni equine, che ha messo sul banco degli imputati grandi nomi della distribuzione europea, si comincia ad invocare leggi più severe.

Dal momento che al giorno d’oggi non c’è un’accezione comune e riconosciuta dei termini filiera e tracciabilità (i dizionari meno aggiornati nemmeno li contemplano!), anche perché la stessa parola “filiera” è stata coniata pochi anni orsono dall’agronomo francese Louis Malassis, vien da sé che l’applicazione normativa scarseggia alquanto.

Fino ad ora l’unica legge a far fede è il Regolamento (CE) 178/2002 (le cui disposizioni sono entrate in vigore nel 2005) secondo il quale gli operatori devono applicare la legislazione alimentare in tutte le fasi della catena alimentare, ovvero durante la produzione, la trasformazione, il trasporto, la distribuzione e la fornitura degli alimenti. Essi sono dunque responsabili della tracciabilità dei prodotti in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, anche relativamente alle sostanze incorporate negli alimenti.

In estrema sintesi, il Regolamento obbliga gli operatori del settore alimentare e dei mangimi a conservare le informazioni sui loro fornitori (da chi hanno comprato cosa e in che quantità) e sui loro clienti (a chi hanno venduto cosa e in che quantità).
E qui sorge una domanda: se c’è davvero questa imposizione di scrupolosità perché, in occasione della bufera scatenata dai prodotti che spacciavano carne di cavallo per carne di manzo, la società francese fornitrice di Findus aveva annunciato che avrebbe fatto causa contro ignoti per il danno subito? Non si deve assicurare l’assoluta tracciabilità di un prodotto?

La riposta è molto semplice: il Regolamento ha molte lacune. Nell’Unione Europea, nel caso dello scandalo delle carni equine, è obbligatorio indicare in etichetta la provenienza della carne bovina dopo l’emergenza mucca pazza, ma non quella della carne di maiale o di coniglio e cavallo. Un vuoto normativo riempito da poco con nuove disposizioni che tuttavia lasciano fuori molti alimenti, come ad esempio il latte e prodotti non trasformati o mono-ingrediente, per i quali la Commissione si riserva qualche anno di tempo per decidere se includerli nella lista dei cibi “controllabili”.

Anche la legge sull’etichettatura (Regolamento (UE) 1169/2011) e il codice a barre per ora servono a poco. La prima perché, pur contemplando anche informazioni utili per risalire alla provenienza dei prodotti, esclude certi alimenti di importanza fondamentale come il latte. Per ora si sa in quale stabilimento è prodotto, l’ora e il lotto di produzione, ma non da quale Paese proviene.

Il codice a barre, invece, dice ben poco: le prime due cifre si riferiscono al Paese. Per esempio i numeri 80-83 stanno per Italia, 90-91 per Austria e così via. Questi numeri non dicono però quale sia l’origine del prodotto o la provenienza delle materie prime.
Le successive 5 cifre rappresentano l’indirizzo del produttore oppure del fornitore, le cinque cifre che seguono danno informazioni sull’articolo stesso, per esempio se si tratta di cioccolatini assortiti, se sono in confezione regalo ecc., mentre l’ultimo numero serve solamente come verifica, in modo che il computer possa accorgersi di un’eventuale “svista”. Nulla che possa richiamare al lungo percorso di un alimento o bene di consumo, insomma.

Fiducia fai da te? Sì, con l’autocertificazione

In attesa che il Regolamento CE entrasse in vigore, ma anche per dare un’immagine migliore di sé, molte aziende hanno deciso di adottare degli standard di tracciabilità.

Nel 2001 l’UNI (Ente Italiano di Unificazione) ha pubblicato la Norma nazionale UNI 10939“Sistemi di rintracciabilità nelle filiere agroalimentari – Principi generali per la progettazione e l’attuazione”. E non si tratta di una norma sovrapponibile con il Regolamento CE 178, perché la UNI ha obiettivi e requisiti diversi. Nel 2008 la UNI 10939 è stata sostituita dalla norma internazionale UNI EN ISO 22005, che ha anche valenza internazionale.

La filiera ha anche un forte impatto economico. E non si parla solo di formazione dei prezzi, ma anche di delicati equilibri economico-finanziari.

Secondo una ricerca pubblicata sul sito diFederalimentari, l’insieme degli operatori delle diverse fasi della filiera agroalimentare garantisce un contributo di primissimo piano all’economia italiana pari all’8,4% del PIL e al 12,6% degli occupati.
Per ogni 100 euro che si spendono in Italia per l’alimentazione, 27 euro sono costi esterni di filiera. Accorciando i passaggi che un bene o cibo compie prima di arrivare al consumatore, il prezzo potrebbe dunque scendere. Il condizionale è comunque d’obbligo perché molto dipende dal tipo di prodotto.

Secondo Coldiretti nella filiera ortofrutticola fresca si possono avere fino ad 8 passaggi dal produttore al consumatore e il prezzo di una passata di pomodoro è composto per il 91,4% da costi di filiera, per l’8,6% dal costo del pomodoro stesso. Discorso simile per cereali e vino, diverso per la carne bovina, dove i costi di filiera superano solo di poco quelli di produzione anche se il numero di passaggi è lo stesso molto elevato.

L’Italia, pur essendo un Paese molto attivo a livello di produzione, deve affrontare alcuni problemi a livello di filiera, prima di tutto quello dell’estrema polverizzazione della fase produttiva, ma anche un grado di concentrazione nella fase distributiva/commerciale non ancora allineato ai principali paesi europei e la dipendenza dall’estero per molte produzioni agroalimentari (anzitutto materie prime agricole).

Al di là dell’aspetto economico, pur molto importante, in questo momento la possibilità di ricostruire tutti i passaggi di un bene, sapendo chi e dove ha prodotto cosa, sembra cosa molto ardua.

Giuseppe Danielli
Informazioni su Giuseppe Danielli 6 Articoli
Giornalista, esperto di agro-alimentare e Direttore della testata editoriale NewsFood.com

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