Cosa resta di Franco Califano, un poeta con “troppa vita addosso” per piacere a tutti

A Roma per le rovine c’è sempre posto. Anche Franco Califano si era ridotto a monumento vivente, spremuto fino alla fine. Non solo lui. Roma è una festa cafonal piena di ex: ex condottieri, ex re di cuori, ex regine, vecchi idoli ridotti a fiere come quelle dello zoo: i nonni ci portano i nipoti, ci si diverte tutti, ma poi alla fine pensi che stavano meglio dove stavano prima. Ma quel prima è ormai un’epoca passata, vicinissima ma passata per tantissimi ex protagonisti.


Il Califano degli ultimi decenni era un uomo che non sapeva più da dove ricominciare. Aveva recitato la parte fuori tempo massimo, in attesa di un cambio mai arrivato. Il miracolo dell’incipit: l’attacco della voce e un giro di chitarra, la sensazione di un nuovo inizio, la creazione di uno spazio che prima non c’era e da cui rimetteremo tutte le cose in ordine: quelle malandate del cuore, quelle sfrenate del sesso, e viceversa. La formula “a me gli occhi please” — con cui Gigi Proietti nel 1976 portò Roma a fare la fila davanti al suo sudaticcio Tendastrisce — significa costringere la folla distratta — perché siamo tanti, troppi- a girarsi verso di sé, e poi riuscire ad abbassare il rumore di fondo — il metronomo della metropoli — che ci vorrebbe sempre indaffarati altrove, e poi ancora il capolavoro: prenderci prigionieri, come il pifferaio. Tutti.

La tomba di Ardea

Dalla terrazza di Jep Gambardella al Celio la tomba di Franco Califano non si può vedere, troppo lontano il cimitero di Ardea, dove la salma è sepolta dal 2013. La tomba è un controsenso per Califano che ha esorcizzato sempre la paura della morte e infatti sulla lastra bianca l’epitaffio è scritto «non escludo il ritorno». Ma è pur sempre l’ultima stazione “per il guerriero che sta riposando dopo aver rivoltato mezzo mondo”. Ad attendere il visitatore c’è una grande foto sgranata, a mosaico, è una foto degli anni più recenti, con la faccia tirata da duro, che poi duro non è stato mai, lo sguardo nascosto dagli occhiali, il volto scavato senza un sorriso, non c’è la data di morte, semplicemente sta scritto “il Maestro”.

La tomba non è la porta aperta delle case di un tempo e infatti salvo gli anniversari qui non ci sarà mai il via vai di ragazzi e musicisti, curiosi e appassionati, oltre che di donne ovviamente, appartenuto alla silenziosissima villa di Acilia e prima ancora alla rumorosa tana di Primavalle, la sua bianca oasi moresca nella periferia dura e pura, e ancora prima al bar Giava degli esordi da playboy nel popolare quartiere Trionfale con gli intonaci giallo zafferano, e pure alla parentesi dell’appartamento borghese al Fleming in una palazzina pirotecnica dove stavano Arbore, Minà e tanti altri, lasciata per desiderio di solitudine.

L’Attimo

Ogni tanto escono dei libri su Califano. C’è “Non escludo il ritorno” di Salvatore Coccoluto pubblicato da Imprimatur. C’è “Un attimo di vita” (Mondadori), dove in copertina campeggia l’altro Califano, quello sorridente e guascone in piena golden age anni Settanta. Stanislaw Lec dice che «i fiori dell’amore non si appassiscono, se ne possono gettare alcuni ancora freschi sulla sua tomba».

Dalla morte di Califano per il Maestro sono piovuti solo omaggi e tributi. Non più le solite fitte biografia «con un penale tutto da pulire» “Senza Manette” (Mondadori, 2008), ma zibaldoni con testimonianze d’affetto, ricordi degli amici, coccodrilli strappalacrime. Non esiste ancora un volume tipo Arcana, o come Leonardo Colombati con Bruce Springsteen (“Come un killer sotto il sole”, Sironi), che riunisca tutti i testi del repertorio, il tesoretto del Califfo da tutti riconosciuto. Si preferisce spesso una scelta di citazioni, “frammenti di verità”, da legare ai suoi famosi monologhi un pò truci. «Non esiste nulla di definitivo quando si parla di Franco Califano» ha detto un suo antico sodale, il giornalista Franco Melli. C’è una petizione già scritta , un change.org sempre acceso per classificare Califano a tutti i costi come poeta, lo stesso accade nei commenti su youtube per ogni canzone. Ma troppa gente affolla già il parnaso dei versi, in Italia ci sono più premi letterari che scrittori (e i poeti battono entrambi), ma soprattutto i letterati sono pronti a fare la guerra anche a Bob Dylan, e di guerre Califano ne ha combattute pure troppe. Piuttosto bisognerebbe avere il coraggio di fare nomi e cognomi, se lo si vuole collocare tra i grandi: tra Battisti e Vasco Rossi? Tra Gaetano e De Andrè? Va bene l’affetto incondizionato ma poi Califano insegna: l’amore, anche quello dei omaggi e degli abbracci, finisce. Dopo che succede? Quale Califano resta in piedi? Là fuori c’è il mito che frigge, e il mito è sempre nemico della Storia: verranno qui ad Ardea a farsi un giro di carbonara come sulla bara del Libanese?

La Fama

Un giorno gli chiesero “E le donne?” e lui rispose: “Quelle fanno parte del mio carattere”. Col tempo la fama da Califfo lo ha trasformato in una statua con i piedi a mollo nel personaggio del macho, del playboy che se la suona e se la canta, “non chiamarmi gigolò — mi disse al telefono un giorno- il gigolò si fa solo pagare, mentre il playboy fa i debiti per farsi fotografare con le donne che contano, per portare a cena le attrici straniere sbarcate a Cinecittà, per vestirsi con abiti su misura”. Califano si è reincarnato in un fotoromanzo — lui che ne aveva fatti oltre 120 — di qui il manierismo che si è ritrovato addosso, accelerato dai capelli bianchi, e da cui però non ha mai mosso un dito per uscire: come quando il revival originato da “Stasera pago io” di Fiorello lo colse col sorriso sul viale del tramonto, che «Califano sapendo di essere un monumento, ha accettato da uomo intelligente» disse una delle sue antiche conquiste.

Un revival che si è nutrito del suo vitalismo accattivante e dalla voce roca (“ho una sola corda vocale e anche quella un po’ malandata”), che ha fatto esclamare molti “Minuetto era sua? E la chiamano estate l’ha scritta il Califfo?” ma poi il ritorno di fiamma è sfociato nel trash delle scorribande da truce intrattenitore come nel “Cuore nel sesso” e “Calisutra” — i due breviari da dongiovanni pubblicati da Castelvecchi. Però il revival lo ha pure portato due volte a Sanremo con le sue canzoni malinconiche, una la gemma “Non escludo il ritorno”, il suo epitaffio, amarcord di un tempo in cui scriveva testi da gentiluomo per le regine della musica italiana.

Il revival è solo una delle sette vite di Califano: gli anni in collegio, le cliniche da cui è uscito miracolato, e poi il carcere per droga e accuse di camorra, il famoso gradino di via della Lungara, ingresso del centralissimo penitenziario di Regina Coeli, che “se non salisci non sei romano” salito 3 volte per un totale di tre anni e mezzo con cui gli fecero pagare la bohéme, poi sempre prosciolto. E con un permesso dal carcere ha suonato per i radicali, e nel 1995 ha inciso una canzone nel 1995 con i ragazzi della comunità di Don Gelmini dove in una domenica di Pasqua me lo ritrovai sul palco idolatrato come una rockstar.

Califano non ha escluso il ritorno, intanto però il viaggio d’andata è stato molto lungo per il paroliere spaccone e saturnino. Agli amici di una volta è andata peggio, neanche il tempo della parodia, della vecchiaia, di raccontare l’uscita dal tunnel: Tenco morto giovanissimo ormai 50 anni fa, Ciampi sepolto già da vivo nella sua Livorno e riscoperto solo post-mortem, infine Bindi, ostracizzato per 30 anni perché omosessuale, e celebrato solo negli addii.

La “sua” Roma

Da Ardea Roma è lontana come una balena che sfiata all’orizzonte. Califano è sepolto qui accanto al fratello e al nipote, lontano dal suo campo di battaglia. Chissà forse il passo da macho metropolitano, — lui che rimpiangeva di non essere nato a Roma- la sua Roma vista come tana e risiko della sua bohème, come gabbia dei domiciliari e rettilineo di rivincita da night-boss, forse tutto questo ha avuto la meglio sulle ferite e gli anni di galera, del resto è sua la sentenza: «Nella palude se sarva solo er coccodrillo». Non esiste un mugshot del Califfo, ma intanto lui nella palude romana ha mostrato i denti incidendo agli arresti domiciliari l’album “Impronte digitali”: la voce la registrava tra le pareti amiche, mentre i produttori stavano in un furgone sotto casa (roba da Tupac o Snoopy Dogg). A Roma si è preso le rivincite che ha potuto: al primo giorno di libertà nel 1986 ha fissato la prima data della tournée dove il pubblico dai profumi forti e dalle macchine da corsa si è subito precipitato. Negli anni 90 fa sempre il pienone alla Voglia matta, la spiaggia artificiale di Caralla, must dell’estate romana del revival. Riceve persino l’invito a cantare anche dalla mitica sezione Labaro di Rifondazione Comunista, dopo decenni di embargo, scatenando polemiche tra i dirigenti. Rare volte ha protestato: “perché le piazze romane le danno a tutti, persino a quel milanese di Roberto Vecchioni?”.

Ma pure la romanità rischia di essere una nota della caricatura del Califfo. Va bene l’essere di casa alla Festa de Noantri a Trastevere (quella che rimediava un posto a tavola anche a Gore Vidal in Roma di Fellin). Ma Califano non è Claudio Villa ultimo gladiatore della Roma da bozzetto, e neanche il nipotino Lando Fiorini, non è un nostalgico anti-moderno: è un ribelle della tradizione. E’ l’eretico della “noia”, colui che osa sollevare un dubbio davanti al ventaglio di occasioni della grande città. E’ lontanissimo dal kitsch insopportabile degli stornelli: una per tutte Califano è “la macchina a lavare”, bye bye serenate nei vicoli attufati di Trastevere, Califano scopre la vastità della città, diventa il pirata della seduzione che gira la capitale in lungo e largo.

L’Oro

Quel revival che Califano è riuscito saggiamente a monetizzare gli ha però opacizzato l’oro che ha sempre esibito con orgoglio. Nell’immaginario le rughe di un poeta garantiscono la saggezza come nelle copertine dei Meridiani Mondadori, ma per un Califano usato in vecchiaia come guru maudit, come un jukebox dongiovannesco, equivalgono a quel tempo che passa e che «c’ha tante rughe che te fa pietà» che lui stesso ha sempre disprezzato, rappresentano l’inizio della caricatura, un attimo prima del patetico.

Il bianco della lapide di Ardea non restituisce il fulgore del Califano che fu, il fulgore ingombrante “dell’impresentabile Califano” come confessò Fulvio Abbate che tentò di sdoganarlo su l’Unità. C’è molto oro infatti addosso al Califano che s’impone, quando l’autore di testi scritti un po’ per tutti e tutti arrivati al successo, entra nel cliché per andare sul palco da solo. Le copertine fronte retro dei suoi Lp sembrano dei calendari per donne, nelle foto Califano non appare mai a disagio: in sella alla moto o a una bici bianca da gagà, con un sorriso da incensurato o nella tana dell’harem in accappatoio o sdraiato a farsi ammirare. Califfo è il Warren Beatty di Primavalle, un bellone sfrontato che più lo sporchi meglio è. Non ha muscoli palestrati né veste attillato, non ha nemmeno le sopracciglia rifatte come oggi molta gioventù delle sue vecchie borgate. Certo l’estetica anni Ottanta un po’ lo affossa, perché poi a distanza di tempo gli anni Ottanta hanno imbruttito tutti.

Le sue donne no, non hanno mai perso smalto, donne che non ha mai esibite in copertina come un Fausto Papetti qualsiasi, ma sempre e solo raccontate nelle canzoni, ovviamente dal suo punto di vista. L’oro che ci restituiscono le tante foto d’epoca e gli archivi tv utilizzati dagli speciali come quello di Emozioni o SuperCaliffo di Blob non è velato dal patetismo della vecchiaia, è un metallo che incarna invece il mito erotico, sentimentale e romantico di Franco Califano. Un mito fatto anche di gentilezza, tanto è vero che un giorno al paroliere detenuto a Rebibbia arrivò un biglietto: “Califfo bello, sono in sala e ho appena fatto questo pezzo che è anche tuo, e non è solo per questo che mi sei venuto in mente. ti penso spesso con tenerezza, vorrei che tu fossi magari al mare adesso che c’è caldo. ti voglio bene, scrivimi se vuoi. Tua, Mina”. Per la cantante più famosa d’Italia Califano aveva scritto un intero album nel 1973, “Amanti di valore”, è l’età dell’oro in cui il paroliere indossa con disinvoltura i panni femminili. Nell’estate del duemila, a sessantadue anni, Califano si presenta — chiamato da Gianni Borgna — nel carcere femminile di Rebibbia. Le detenute gli urlano “sei unico”, cantando a memoria le canzoni del repertorio.

I Ritorni

Sulla lapide della tomba di Ardea c’è una stella con inciso il nome di Califano e l’immagine di un microfono, somiglia a una delle stelle della walk of fame di Hollywood. Se tutte le strade portano a Roma dentro quella stella c’è anche la Roma nuda dei ritorni a casa del cantastorie venuto dal Sud, come ricordano la palma e la stella marina accanto alla tomba. Al suo apice Califano ha navigato in un decennio difficilissimo, dove pure mostri sacri al riparo oggi dalla caricatura del Califfo come De Gregori, Guccini e Dalla hanno subito le dure contestazioni degli Autonomi. Califano è rimasto al timone del suo credo, «tanto vale andare avanti e trattare con i guanti solo questa libertà», irrequieto e vorace, capace di raccontare imprese e inconfessabili batoste come Battisti ma senza cantare «una donna per amico», senza fuggire in Giamaica dal femminismo isterico come Bennato, senza smarrirsi e scendere dal treno di un ménage à trois come Rino Gaetano.

Il Mito

Ad Ardea giace il microfono spento che ha cantato l’esaltante mito della massima disponibilità sensuale e la smania sentimentale da soddisfare sul terreno della grande città, un mito che poi la realtà delle cose ha restituito mozzicato (“Quando comincia la notte, mi agghindo e poi parto verso un flipper perverso, per andare a giocare con i mille bottoni, che l’uomo vuol premere senza illusioni”), malinconico, solitario, epperò proprio per questo Califano si è preso il diritto di cantare successi e disfatte, orgogli e rosicate, tradimenti e vendette. Ma pure i capricci, le tregue, i limiti umani del corpo e l’ambiguità sessuale. L’unica sortita contro un rivale, forse un amico che l’ha tradito, si intitola “Alla faccia del tuo uomo”, dove Califano è uno spietato sicario della coppia. Canzoni al limite del politicamente corretto, come Gabry di Vasco, sono “Angela” e “Bimba mia”. Il suo 1977 è la canzone “Avventura con un travestito”, dove il playboy sotto scacco è costretto ad aggiornare le sue coordinate del mondo, uscendone con eleganza e pragmatismo (“la vita è un dubbio tutto da scoprire, quelli sò maschi oppure sò signore? Chi vò la verità deve toccare, prego signori, venghino a toccare”). L’ultima stoccata è a Sanremo. Zampaglione gli scrive una canzone, Califano gli trova titolo e ritornello, “non escludo il ritorno” ma soprattutto gli cambia l’incipit. “Sai che la notte non dormo ma ho voluto chiamarti” diventa “sai che la notte non dormo e ho voluto chiamarti”, perché il playboy Califano quando vuole sentire una donna la chiama a qualsiasi ora.

La musica però è finita veramente. Fuori dal cimitero si allunga adesso l’ombra del personaggio, la caricatura del Califfo dilata e ingrossa il carico d’oro del paroliere seduttore. Per quella Roma per cui al di là del Colosseo esistono solo Corviale e l’anguillaro del Sacro Gra, quella dell’impresentabile Califano, il sole che tramonta sulla Pontina sulla tomba di Califano deve sembrare ancora una volta la Caienna.

Reduci

E così anche Califano fa parte da anni della spoon river capitolina fatta di obituary eccellenti. Patriarchi e divini inossidabili ci hanno detto addio, pure l’ombra di se stessi si sono portati via. Addio ai giganti come Lizzani, Monicelli, Magni, Trovajoli. Addio pure agli eccentrici stradaroli, gli idoli impomatati, i re di cuori, gli ultimi mohicani: Remotti, Schicchi, sono morti tutti.

Dell’archeologia pasoliniana, scomparsi il filosofo Citti e l’allievo Cerami, è morto anche l’ormai invisibile e malconcio Franco l’Accattone mentre galleggia innocuo il feticcio dai ricci bianchi Ninetto Davoli. Victor Cavallo, il domatore della folla inferocita di Castelporziano, se n’è andato da tempo. Scomparsi anche cuore matto Little Tony e pure il traffichino guascone Manuel Fantoni alias Angelo Infanti, autore della più fantasiosa guida di sopravvivenza a Roma (ed è triste una Roma immaginaria con Fantoni ancora in galera e il banale Sergio Benvenuti a piede libero). Andato via anzitempo il sindaco di tutta questa varia umanità effimera, Renato Nicolini. Pure il dandy perditempo Valentino Zeichen che resisteva nella sua baracca di Borghetto Flaminio tra la jungla di villa Strohl Fern si è arreso suo malgrado. É morto anche l’autore dell’epocale “Amore Tossico” — il film sul Vietnam romano dell’eroina- Claudio Caligari, elemosinando aiuto per l’ultimo film. Da ultimo anche Tomas Milian. Gente irripetibile. Ma insostituibile? Nell’attesa di nuovi originali ci siamo rivolti a un Jeeg Robot sovrappeso.

Fiction

Dalla morte del Califfo due tentativi di fiction. L’autista dell’Atac che faceva serate come finto Califano, sorpreso dalla guardia di finanza in un locale di Zagarolo a cantare la sera “Tutto il resto è noia”, mentre di giorno era ufficialmente in malattia con tanto di permessi. “Nessuna colpa — ha dichiarato-. Franco mi avrebbe capito, cantavo e celebravo il Maestro, è la mia cura, perché in azienda mi fanno morire di stress”. Tra rinvii e udienze la causa è andata avanti, l’epilogo è ignoto. E poi il film su Califano, ancora quel titolo “Non escludo il ritorno”. Dopo un’ora e mezza di fiction da generosa recita scolastica l’attore si alza da tavola e guarda il mare con gli occhi lucidi. Il Maestro sa di avere pochi giorni di vita e guarda le onde del litorale romano, il punto massimo dove l’elastico di Roma si tira e torna indietro, lì la corda si spezza, ci si adagia, si lavano i peccati, lì finiscono le traversate, le notti tirate a lucido, i “fianchi spolverati allo specchio prima di uscire” come li chiamava Califano, lì tutta la prosopopea della metropoli finisce, si vola bassi. E quello sguardo di finzione è il congedo dalla sua epopea. Non ci saranno i 100 giorni di Napoleone, nessun ritorno in sella al suo sorriso ricoperto d’oro. Il seduttore delle mille battaglie è giusto che riposi. Non tornerà mai più.

Sfondo finale

La noche di Roma tropicana e randagia è cambiata, come cambiano gli algoritmi di google. Il califfo oggi finirebbe leone in gabbia nei privè dei locali di una Roma molto più tossica e trasversale di qualsiasi tentazione da playboy. Ma alle tre di notte le ragazze dai Docks del Porto Fluviale, dal Lanificio a Pietralata, dal Magic Bar sul lungotevere Oberdan, ritornano in smart da sole a casa, senza un Califano al fianco, tanto poi ci si aggiunge domani su facebook. Non esiste ancora a Roma una via intitolata al Maestro ma sulle strade che Califano aveva battuto in lungo e in largo sono comparsi decine di murales, street art ovunque, fondali a ripetizione in una città che è già schiava del proprio palcoscenico, sfondi strabilianti ma muti, in attesa dei protagonisti. Il lungo argine affrescato da William Kentridge è stato sfregiato da graffiti e tag. Ma una tacca sul muro non vuol dire farsi scorticare dalla città, non è svuotarsi le tasche, non è far rimbalzare la vita sul fondale di Roma. Anzi, è aggiungere fondo su fondo. Ma i fondali non li seduce nessuno.

Redazione
Informazioni su Redazione 271 Articoli
Redazione Outsider News.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*