La mamma resta sempre la mamma: come si è evoluta la figura centrale della nostra vita

La mamma è sempre la mamma. Perfino la psicoanalisi ne ha preso atto, dopo aver privilegiato inizialmente il padre. Il primo modello freudiano, come molti sanno, proponeva che lo sviluppo di una psiche matura e stabile dipendesse da uno scontro di personalità: tra i figli che devono conquistare l’autonomia e il padre che deve imporre e trasmettere la Legge morale prima di aprire i cancelli della libertà.

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Questo modello è durato fino agli anni ’60, decennio spartiacque. In quegli anni di rivoluzione sociale e culturale, nelle scienze psicologiche il conflitto edipico tra padri e figli fu lentamente sostituito da uno scenario più sentimentale e tranquillo, la cosiddetta relazione di attaccamento tra genitori e figli, in cui l’amore e l’accudimento, soprattutto materni, prendevano il posto della rivalità con il padre. Fu Donald Winnicot il principale autore di questa svolta. In seguito John Bowlby diede una conferma empirica al nuovo modello materno-centrico. Non si pensava più che lo sviluppo della psiche e delle sue deviazioni germogliasse da uno scontro tra Edipo e Laio, ma dall’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre. Si trattava di un profondo cambiamento culturale.

La severa Torah freudiana era stata sostituita dai Vangeli amorevoli di Winnicot e Bowlby, e un gentile culto mariano subentrava alle tragedie arcaiche. E anche il copione psicoterapeutico cambiò. Non si trattava più di riprodurre in seduta le triangolazioni erotiche e conflittuali edipiche, ma di vivere una relazione tra paziente e terapeuta meno tragica e più gentile e cortese, sia pure con le sue puntate drammatiche. L’inconscio assoluto sembrava svanire, per essere sostituito da un vaporoso stato di semi-coscienza e semi-incoscienza onnicomprensiva. Diventava centrale soprattutto l’affetto trasmesso, il calore e la protezione, la vicinanza sentimentale e continua, l’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre.

Il ruolo del padre veniva così decostruito con successo, mentre la mamma diventava sempre più la mamma, perfino nei severi paesi nordici. Nel 1999 Silverstein e Auerbach pubblicarono un articolo diventato famoso sulla prestigiosa American Psychologist, articolo intitolato “Deconstructing the Essential Father”.

Anche Silverstein e Auerbach notavano che il processo di svalutazione del ruolo del padre nel processo di crescita dei bambini era iniziato dagli anni ’60, il decennio decisivo della secolarizzazione di massa in Occidente. Come ho già scritto, da quel decennio in poi molti teorici della psicoanalisi e della psicologia scientifica avevano messo da parte la centralità del confronto padre-figlio e la terribilità del conflitto edipico e lo avevano sostituito con lo scenario più morbido e adrammatico, più sentimentale e senza scosse della cosiddetta relazione di attaccamento tra madri e figli. Con la teoria dell’attaccamento, che è diventata in breve dominante, la madre diventa il soggetto essenziale e unico. La famiglia a due genitori inizia a vacillare.

Altri dati a favore della centralità della madre provengono dalla teoria evoluzionista darwiniana. Darwin e i suoi seguaci più recenti, fino a Richard Dawkins, sostengono che mentre il maschio sarebbe evolutivamente spinto a fecondare quante più femmine può (e quindi investire sul numero, e non sulla qualità della relazione con una prole amata e protetta, per diffondere i propri geni); la femmina invece punta le sue carte su pochi figli e figlie allevate e amate con cura e dedizione, seguite finché non conquistano l’autonomia. Di qui scaturirebbe darwinianamente la potenza dell’amore materno, di qui l’attaccamento profondo, violento e terribile della madre ai figli.

D’altro canto, poiché anche nella scienza sembra spesso valere il detto che ci sono buoni argomenti per ogni conclusione, molti studi finiscono anche per rivalutare la figura del padre. Inoltre, il possibile rischio della linea di pensiero che privilegia la madre è che così si finisca per propagandare una differenza strutturale tra genere maschile e femminile che suggerisca che le donne dovrebbero tornare badare figli e fornelli. Silverstein e Auerbach hanno notato questi rischio e hanno argomentato quanto possa essere discutibile l’applicazione del darwinismo alla psicologia o alla sociologia.

La tendenza più recente, lo stadio successivo a quello della decostruzione del padre, è infatti la valorizzazione di un neutrale care-giver asessuato. Care-giver: colui che da accadimento e il cui sesso è indifferente. Anzi, perfino la specie può essere indifferente. Nella teoria dell’attaccamento ci sono delle analogie con le osservazioni sull’ìmprinting di Lorenz, che notava come il cucciolo neonato scelga il genitore care-giver da seguire fedelmente secondo un criterio del tutto slegato da ogni preferenza sessuale o di specie: il primo che vede è adottato come genitore. Così poteva succedere che Lorenz passeggiando fosse seguito da una fila di anatroccoli, di cui era il care-giver.

Questo in teoria. Nella pratica, il care-giver rimane nella stragrande maggioranza dei casi di sesso femminile ed è quindi la madre, la mamma che è sempre la mamma. Alcuni studiosi hanno paventato una sorta di ritorno al branco primitivo, in cui i maschi vivono in gruppo separati dalle donne, dediti ai virili giochi della caccia (e della guerra), e altrettanto separate dai maschi vivono le donne, dedite alla cura dei figli e a una vita sociale più corte e civile. E l’incontro tra i sessi si limitava a stagionali cerimonie riproduttive.

Nella versione moderna, naturalmente e per fortuna, lo scenario è più equilibrato. Anche la donna è sempre più presa dalle gioie dell’affermazione di sé nel lavoro e nella vita autonoma, ha percepito il richiamo dell’indipendenza nella foresta e segue il richiamo di Diana cacciatrice. È anche un’idea basata scientificamente, come spiegano Ryan e Jethà (2010) nel loro libro intitolato Sex at dawn: the prehistoric origins of modern sexuality, ovvero le origini preistoriche della sessualità moderna, libro che racconta come siamo destinati a tornare alla pluralità erotica dei tempi primitivi.

Rimane il fatto che, paradossalmente, questa indipendenza spesso lascia sola la madre con i figli e caricare solo la madre del peso della crescita della prole rimane un rischio. Gli adolescenti cresciuti con un solo genitore –per lo più la madre – presentano maggiore tendenza all’abuso alcolico e di droghe, maggiori tendenze suicidarie, più gravi problemi psichiatrici, minori capacità di cooperare e socializzare con gli altri e hanno una propensione nettamente maggiore a subire condanne carcerarie per atti violenti (Berman, 1995; Duncan, Duncan e Hops, 1994).

La risposta –negli Stati Uniti fatta propria anche dal presidente Obama – prevede la valorizzazione di famiglie consapevoli e strutturate. La coppia dei genitori è migliore di un solo genitore (Dazzi e Madeddu, 2009, pag. 215-224). Sono dati che forse hanno colpito particolarmente Obama, conoscendo la sua storia personale di ragazzo cresciuto senza padre.

Il che non vuol dire appoggiare solo il modello tradizionale madre/padre, ma anche altre configurazioni di coppie di genitori “same-sex”. La promozione di forme alternative alla famiglia tradizionale non deve diventare – come talvolta è successo in passato – promozione indiscriminata anche delle famiglie monogenitoriali, che in realtà sono spesso configurazioni residuali non scelte e che finiscono per scaricare tutto il peso economico ed emotivo sulla sola madre, come purtroppo accade sempre più spesso nei paesi anglosassoni.

In un certo senso, man mano che la svolta culturale del matrimonio gay viene assorbita si delinea una inedita alleanza neo-conservatrice tra famiglia tradizionale padre/madre e famiglie “same-sex”. Ne ha parlato recentemente perfino il New England Journal of Medicine. Insomma, la mamma è sempre la mamma, ma da sola non può farcela.

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