La memoria storica al cinema: dalla Resistenza a “Santiago, Italia” di Nanni Moretti

La memoria è un risveglio insperato ed è fatta di ricordi che bruciano dentro. Sensazioni che ricostruisce Primo Levi, con pietre miliari come “Se questo è un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati”, da testimone e grande scrittore. Ritrovare la memoria significa anche esprimere “il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora”, come osservava Italo Calvino presentando il suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”.

Santiago, Italia – Nanni Moretti

Così la memoria è rielaborata dalla letteratura di Fenoglio, Vittorini, Carlo Levi, Morante, Pavese, Cassola e dal cinema di Rossellini, Francesco Rosi, Bernardo Bertolucci, Scola, Montaldo, Lizzani, i fratelli Taviani, Olmi e Diritti, tra gli altri, rivivendo in chiave creativa la coscienza antifascista e il patrimonio culturale che ha generato la Resistenza. Eredità preziosa perché, come scrive Liliana Segre, “chi ignora il passato è più facilmente plasmabile” (la Repubblica del 24 aprile 2019). Da qui l’importanza dell’appello in difesa dello studio del passato lanciato da Andrea Camilleri, dallo storico Andrea Giardina e dalla stessa senatrice a vita Segre. La ricorrenza del primo maggio può essere pure un’occasione per ripercorrere le tracce e la genesi di un altro evento da non rendere innocuo.

A proposito di ricostruzione storica, Nanni Moretti fa dell’apparente semplicità della messa in scena cinematografica un punto di forza di “Santiago, Italia”, documentario presentato al Torino Film Festival e premiato con il David di Donatello e Nastro d’Argento dell’anno. La sua è una lezione sul punto di vista in un incalzante alternarsi di testimonianze e reperti su quello che accadde dopo l’11 settembre 1973, in seguito al colpo di Stato in Cile e al rifugiarsi di molti perseguitati, con i loro familiari, nell’ambasciata italiana.

“Quando ho cominciato a lavorare al documentario c’era un clima diverso: un’Italia un po’ meno incattivita e chiusa nei confronti della solidarietà. Sono felice come regista, anche se mi dispiace come cittadino, di mostrare oggi questo piccolo film sull’accoglienza in un periodo in cui un gran pezzo della società italiana è andato nella direzione opposta ai valori dell’accoglienza, della solidarietà, e in direzione opposta alla curiosità verso gli altri, alla compassione”, ha dichiarato in più occasioni il regista, anche tra i produttori con la Sacher Film, reduce in questi giorni da alcune presentazioni siciliane: dalla Multisala Apollo di Messina e l’Odeon di Catania al Rouge et Noir di Palermo e ai cinema Aurora di Siracusa e Modica.

Gli applausi alla fine sono stati il suggello di una visione vissuta con passione da parte degli spettatori. Merito di un documentario che fa ridere e commuovere e che provoca riflessioni, inquietudini e tante domande sulla natura umana, sul conformismo e l’autoritarismo, sul coraggio delle scelte e la ricerca di libertà e indipendenza. L’autore di “Bianca”, “Caro diario” e “Habemus Papam”, solo per citare tre dei suoi dodici film, appare solo in due sequenze: all’inizio, quando scruta in una visione d’insieme, ripreso di spalle, il panorama di Santiago e quando rivendica la sua non imparzialità di fronte a un militare, in carcere. Per il resto, rimane fuori campo e a tratti ne udiamo la voce quando interroga i sopravvissuti.

“Era la fine di tutta una vita democratica che di colpo si trasformava in dittatura. La cosa più impressionante era proprio questa: non avevamo esperienza né con i militari, né con regimi dittatoriali, e questo Paese, che era così libero, si trasformò di colpo in un Paese atroce. Per strada c’erano solo militari. Avevi paura di uscire. Dovevi andare a fare la spesa e tornare subito a casa, non andare in giro, chiuderti in casa. Quella era la vita nuova, rimanere chiusi in casa”, ricorda il regista Patricio Guzmán. Con il ruolo degli Usa in funzione antisocialista e anticomunista, il tradimento e la violenza militare, sotto la guida di Pinochet, e la morte tragica del presidente Salvador Allende determinano l’intervento improvvisato di religiosi e diplomatici per sottrarre alla tortura e alla morte più persone possibili.

Ecco la rievocazione di Piero De Masi: “A un certo punto c’era una tale corsa alle ambasciate da parte di questi cileni che erano impazziti dal terrore e allora saltavano il muro. Non chiedevano neanche, non entravano in maniera normale. Lì il muro dell’ambasciata italiana era molto basso (…) e qualcuno aveva tolto dei mattoni qui e lì in modo da fare una specie di scaletta e questi arrivavano e saltavano dentro. (…) Quando ho cominciato a vedere quest’ingressi incontrollati mi sono detto: che faccio? Io avevo chiesto al mio ministero di darmi istruzioni su quello che dovevo fare. Naturalmente si sono ben guardati dal farlo. E allora io ho deciso di tenerli tutti, di non mandare via nessuno”.

Nel film, queste sono le parole di Vittoria Sáez, artigiana: “Noi sempre abbiamo detto che siamo ricchi perché abbiamo due identità nazionali. Io sono cilena per nascita, con un Paese che mi ha trattato da patrigno. Il Cile è stato un patrigno cattivo per me. E l’Italia è stata una madre generosa e solidale”.

La regia asciutta di Moretti, il montaggio di Clelio Benevento e la fotografia di Maura Morales Bergmann valorizzano la forza del racconto senza forzature, evocando la complessità della vicenda senza complicare la fruizione e favorendo il coinvolgimento del pubblico.

Come evidenzia su Fata Morgana Web Roberto De Gaetano, autore del libro “Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente” (Pellegrini, 2015), il film “dietro un apparente sguardo documentario lascia emergere una visione acuta e originale sul presente. (…) Santiago, Italia è un film sul presente italiano restituito nell’unico modo possibile: scavando genealogicamente nella storia del Paese e trovando in essa – affidata alla parola dell’altro – un luogo di fondazione mitico-epica”. Per De Gaetano, “non è tanto in gioco la comparazione meccanica tra il Cile di allora e l’Italia di ora, quanto la potenza di una composizione che, facendosi mediare da testimonianze e materiali d’archivio, costruisce “immaginativamente” una comunità, la cui verità è in primo luogo poetica (da dove momenti commoventi). Quell’Italia era tale – cioè comunità – perché di fatto immaginata e raccontata dall’altro”. I ricordi e la commozione dei cileni aiutano dunque a tratteggiare un’Italia diversa, quella che accolse i rifugiati dopo i giorni in ambasciata, rispetto a quella di chi invoca oggi barriere e muri, contrapponendo gli italiani ai migranti e ai profughi.

Ecco perché, sostenendo che nessun’immagine e nessun lavoro di scavo sono imparziali, pur praticando onestà intellettuale e rigore nella documentazione, Moretti offre una lezione sul punto di vista e sull’interpretazione critica, unendo cinema e memoria in equilibrio fra visione personale e collettiva. Vengono in mente, in parallelo, alcune pagine scritte da Lisa Halliday nel romanzo “Asimmetria” (Feltrinelli, 2018), quando fa dire alla voce narrante che una persona può “mettere lo specchio davanti a qualunque soggetto, a qualunque angolazione” ma non può “far finta che non sia lei a reggere lo specchio. E il fatto che tu non riesca a vedere la tua immagine riflessa non vuol dire che gli altri non la vedano.” Non a caso anche chi è pagato per immaginare è eternamente costretto da “limiti invalicabili”. Questo limite può diventare una risorsa, in termini di romanzo e di linguaggio per immagini, se si ha la capacità di mettere il proprio punto di vista al servizio di un racconto dotato di forza universale, che sa comunicare e trasmettere emozioni e pensieri a chi legge e a chi guarda.

Mostrando come si può essere protagonisti senza invadere lo schermo e dando spazio e voce a chi ha qualcosa da esprimere, il regista di “Palombella rossa” e “La stanza del figlio”, film nei quali ricordare (in chiave personale e collettiva) diventa doloroso e a volte insopportabile, arricchisce l’immaginario dello spettatore sottraendo all’oblio piccoli e grandi azioni, gesti e sentimenti spesso avvolti nelle nebbie della Storia.

Un significativo sfondo storico/politico sarà pure al centro del nuovo lungometraggio di Moretti, attualmente in lavorazione, tratto dal romanzo “Tre piani” (Neri Pozza, 2017). Un libro scritto dall’israeliano Eshkol Nevo, con attenzione alle suggestioni psicoanalitiche. L’uscita è prevista nel 2020.

Marco Olivieri
Informazioni su Marco Olivieri 26 Articoli
Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*