Tre manifesti a Ebbing, Missouri: un film originale sul dolore e l’impossibilità di sconfiggere il male

Viaggio al termine dell’America. Siamo nel Midwest, negli Stati Uniti, ma a tutti gli effetti si è immersi nel clima psicologico del Sud. “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” (“Three Billboards Outside Ebbing”) racconta un mondo chiuso, denso d’ineludibile dolore, che diventa specchio universale di un’umanità in preda a sofferenze e pregiudizi, luoghi comuni e scoppi improvvisi di violenza, malattie, odi, rancori e sconfitte. Un’umanità capace però di lampi inattesi di comunicazione, di scambio affettivo.

Scritto e diretto dal britannico di origini irlandese Martin McDonagh, commediografo e regista (al terzo lungometraggio), il film colpisce per l’equilibrio tra incisività della regia e abilità della sceneggiatura di mettere in moto eventi che disorientano e coinvolgono emotivamente lo spettatore, spingendolo a riflettere e a discostarsi dalle posizioni predefinite.

Al centro delle sequenze sono esseri in balìa del caso, in un rapporto dialettico che investe le musiche di Carter Burwell (spesso compositore per i Coen), assieme alle canzoni inserite (come “Buckskin Stallion Blues” e la più antica “Blessed Are” di Joan Baez), e il linguaggio cinematografico, con la fotografia di Ben Davis e il montaggio di Jon Gregory. Nel raccontare la determinazione di Mildred Hayes, a costo d’inimicarsi quasi tutti gli abitanti del suo microcosmo, nell’affittare tre manifesti pubblicitari che chiedano conto alla polizia della mancata individuazione dell’uomo che ha ucciso la figlia, violentata e bruciata viva in un’autostrada semiabbandonata, McDonagh gioca con i generi. I meccanismi narrativi della black comedy e del drammatico vengono intrecciati e sviluppati in modo da cogliere ed esaltare gli elementi paradossali, assurdi e grotteschi che si annidano nel tragico.

Man mano che “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” approfondisce le psicologie dei suoi personaggi, dal carattere indomabile di Mildred alla debolezza psicologica dell’agente razzista e violento Dixon e alla sensibilità con cui si congeda dalla vita lo sceriffo Willoughby, malato terminale, si rendono evidenti gli obiettivi del regista e sceneggiatore. In questa giostra di vite distrutte e punti di vista confliggenti, sensi di colpa e dilemmi da non giudicare in modo manicheo, fragili io e uomini che solo in punto di morte sanno rivelare verità profonde, viene in mente la lezione di maestri letterari come Gadda, Sciascia e Dürrenmatt (si pensi a “La promessa”, ad esempio, trasformato in film da Sean Penn).

Nel film di McDonagh, tra le pieghe della storia, domina l’impossibilità di individuare davvero un colpevole, seppure i colpevoli non manchino, e di sconfiggere il male, in linea con una tradizione, quella del giallo metafisico e della ricerca interiore, che trascende e viola le regole consolidate dei thriller. L’elemento chiave per intercettare l’anima di questo racconto per immagini è forse l’evocazione, affidata a sfumature e silenzi, dell’irrisolvibile problematicità del vivere, con le sue dosi di bizzarria e follia, traducendola in personaggi, situazioni (a tratti divertenti o singolari, a tratti drammatiche), azioni e reazioni.

In questo quadro, il regista lascia, nonostante tutto, uno spiraglio alla speranza, confidando negli esseri umani, malgrado quanto orrore si celi nei loro gesti e sentimenti, in modo originale e non retorico. Da parte sua, l’interpretazione di Frances McDormand (Mildred), premio Oscar per “Fargo” dei fratelli Coen, conferisce la giusta combinazione di grinta e imprevedibilità, spessore e complessità al personaggio. Accanto a lei, attrice che non smette d’inquietare e coinvolgere dalla prima all’ultima sequenza, convincono pure Woody Harrelson (lo sceriffo Willoughby), Sam Rockwell (il disturbato agente Dixon), Lucas Hedges (già in “Manchester by the Sea”), Peter Dinklage (reso celebre dal “Trono di spade”), Sandy Martin (la madre patologica di Dixon), Caleb Landry Jones, John Hawkes, Abbie Cornish e Clarke Peters.

Tutti corpi e facce di una narrazione sfaccettata, divertente e disperata al tempo stesso, che stimola riflessioni sul legame tra gli Stati Uniti e la violenza. Di conseguenza, si aprono squarci sull’emarginazione sociale, i meccanismi dell’opinione pubblica, il conformismo e le tendenze distruttive, l’assenza di una comunità, il razzismo di forze dell’ordine dalla mentalità sudista, le torture, i muri mentali. In primo piano gli ostacoli e i chiaroscuri che separano l’idea di giustizia e gli individui.

Già premio Osella per la sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia e premio del pubblico al Toronto Film Festival, “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” ha ottenuto quattro Golden Globe, a volte l’anticamera dell’Oscar: miglior film drammatico, migliore sceneggiatura, Frances McDormand migliore attrice e Sam Rockwell migliore attore non protagonista.

Marco Olivieri
Informazioni su Marco Olivieri 26 Articoli
Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

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