C’è un sentimento sempre più diffuso che attraversa uffici, fabbriche, scuole e aule universitarie: un misto di frustrazione, confusione e senso di inadeguatezza. A generarlo non è soltanto la precarietà del lavoro e la difficoltà di costruire una carriera stabile, ma anche – e sempre di più – il confronto quotidiano con il successo apparente degli influencer sui social media.

Navigando su TikTok, Instagram o YouTube, la narrazione sembra chiara: giovani poco più che ventenni, spesso senza titoli specifici o competenze riconoscibili, riescono a guadagnare cifre astronomiche mostrando la propria vita, ballando davanti a una videocamera o commentando prodotti. Un successo rapido, visibile, ostentato. E soprattutto, agli occhi di chi lavora o cerca lavoro, inspiegabile.
Il confronto che logora
Per molti lavoratori, soprattutto under 35, il confronto è destabilizzante. Da una parte anni di studio, stage sottopagati, contratti a termine, carriere lente e faticose; dall’altra coetanei che sembrano “saltare la fila” del merito tradizionale, ottenendo visibilità e ricchezza in tempi brevissimi.
«Ho due lauree e un lavoro precario, mentre vedo ragazzi più giovani di me che guadagnano in un mese quello che io prendo in un anno», è una frase che si ripete spesso nelle interviste e nelle conversazioni informali. Non è solo invidia: è la percezione che le regole del gioco siano cambiate senza che nessuno le abbia spiegate.
Gli influencer come modelli ambigui
Ma come vengono percepiti davvero questi influencer? Non sempre come esempi positivi. Anzi. Tra i lavoratori e tra molti giovani in cerca di occupazione prevale una visione ambivalente: ammirazione per il risultato economico, ma scetticismo – quando non disprezzo – per il valore reale di ciò che fanno.
Molti non li considerano veri modelli professionali, quanto piuttosto “fenomeni dell’algoritmo”: persone che hanno intercettato il momento giusto, la piattaforma giusta, il format giusto. Un successo visto come fragile, legato all’attenzione volatile del pubblico e alle regole opache delle piattaforme digitali.
Eppure, nonostante questa consapevolezza, l’impatto psicologico resta forte. Perché la visibilità del successo influencer è continua, martellante, quotidiana. E soprattutto è raccontata come facile.
L’illusione del successo facile
Il messaggio che passa dal web è potente e fuorviante: basta aprire un profilo, pubblicare qualche video e “diventare qualcuno”. Una narrazione che ignora deliberatamente un dato fondamentale: solo uno su mille ce la fa davvero (per essere ottimisti).
Dietro ogni influencer che guadagna cifre importanti ci sono migliaia – spesso milioni – di profili invisibili, che non monetizzano nulla e che dopo mesi o anni abbandonano. Ma questi fallimenti non fanno notizia, non entrano nei feed, non diventano storytelling.
Il risultato è una distorsione della realtà che colpisce soprattutto i più giovani, inducendoli a sovrastimare le probabilità di successo e a sottovalutare l’importanza di competenze, formazione e percorsi strutturati.
L’effetto sul lavoro e sulle scelte di vita
Questa illusione ha conseguenze concrete. Alcuni giovani rinviano l’ingresso nel mondo del lavoro, altri vivono il proprio impiego come una sconfitta personale, altri ancora abbandonano percorsi di studio o professionali inseguendo un’idea di successo rapido che raramente si realizza.
Nel frattempo, chi resta nel lavoro “tradizionale” sperimenta un crescente senso di svalutazione: non tanto economica, quanto simbolica. L’idea che l’impegno, la competenza e l’esperienza contino meno della visibilità e dell’intrattenimento mina la fiducia nel sistema e alimenta un disagio silenzioso.
Ripartire dalla realtà, non dall’algoritmo
Il punto non è demonizzare gli influencer né negare che, per alcuni, si tratti di un vero lavoro che richiede strategia, costanza e capacità comunicative. Il problema è la narrazione semplificata e tossica del successo facile, che ignora il fattore statistico, il rischio e la precarietà estrema di questo modello.
Rimettere al centro la realtà – fatta di probabilità, competenze e percorsi – è oggi una necessità culturale oltre che sociale. Perché senza strumenti di lettura critica, il rischio è una generazione sospesa tra il mito dell’algoritmo e la frustrazione del quotidiano, incapace di riconoscere il valore del lavoro reale e di immaginare un futuro possibile.
In un mondo che promette tutto e mantiene pochissimo, forse la vera competenza da recuperare è proprio questa: distinguere l’eccezione dalla regola.

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