Nato con l’Austria-Ungheria e morto nell’era digitale. Il tempo si era dimenticato di Gillo Dorfles e lui viveva nel futuro

Sembrava quasi che il tempo si fosse dimenticato di lui, che la morte avesse deciso di risparmiare questo gigante del novecento: filosofo, pittore, critico d’arte eclettico (sua fu la definizione del “Kitsch”), intellettuale sempre irriverente. “Ho dimenticato metà secolo e sto dimenticando l’altra metà perché voglio vivere nel futuro”, aveva 107 anni Gillo Dorfles ma viveva costantemente proiettato nel futuro.

Non basterebbe una raccolta enciclopedica per descrivere la vita straordinaria di Dorfles, nato nella Trieste dell’imperatore Francesco Giuseppe e vissuto per un tempo quasi eterno attraversando tutti gli sconvolgimenti degli ultimi cento anni.

L’unico modo per parlare di Gillo è lasciare che lo faccia lui, così come ha fatto nell’intervista (riportata di seguito) che ha rilasciato a Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera in cui racconta in prima persona gli episodi più importanti della sua vita.

La Trieste degli Asburgo
Il mio vero nome è Angelo, ma nessuno mi ha mai chiamato così. I Dorfles sono una famiglia di origine austriaca, trasferita a Gorizia: mio nonno era presidente del teatro Verdi, molto fiero di avervi portato Eleonora Duse. Sono nato a Trieste il 12 aprile 1910. Ricordo la città pavesata di bandiere gialle e nere con le aquile, i colori dell’impero. Quasi ogni giorno uscivo in passeggiata con mia madre. Incontravamo un pope barbuto, un prete greco, che mi vezzeggiava: questo mi faceva sentire importante. E passavamo dalla libreria antiquaria di via San Nicolò, gestita da un uomo burbero: “Cos’ti vol picio? No xe roba per ti!”. Era Umberto Saba. Non vidi l’arrivo dei marinai italiani, nel novembre di cent’anni fa; durante la Grande Guerra la mamma mi aveva portato a Genova, dov’era nata. Mio padre, irredentista, era al confino a Vienna. Ma il liceo lo feci a Trieste: il Dante Alighieri. Linuccia, la figlia di Saba, divenne una delle mie più care amiche. Andavo a casa sua almeno due pomeriggi a settimana; e se il padre mi sopportava a malapena, la madre, Lina, era molto gentile. Poi Linuccia si fidanzò con un ragazzo meraviglioso, Bobi Bazlen: fu lui a farmi scoprire Proust, Kafka e soprattutto Joyce. Andavamo a lezione da un professore che l’aveva conosciuto e ci spiegava l’Ulisse, allora ignoto in Italia».

Il salotto di Svevo
«Irredentisti e nazionalisti si trovavano a casa di Elsa Dobra, sorella di Elodie Stuparich, una delle muse di Scipio Slataper: il “barbaro sognante”, l’eroe del Carso. Io frequentavo il salotto di Olga Veneziani, che aveva una fabbrica di vernici sottomarine: una signora dal carattere terribile, che mal tollerava le prove letterarie del genero, Ettore Schmitz, che nessuno conosceva ancora come Italo Svevo. Con lui facevamo gite sul Carso, giocavamo a bocce nelle locande. Il mio primo articolo sul Corriere della Sera, chiestomi da Dino Buzzati, raccontava proprio casa Veneziani. C’era una giovane pittrice, Leonor Fini, eccentrica e vistosa; un mio professore ci vide camminare a braccetto e telefonò a mia madre allarmatissimo: “Suo figlio si accompagna a donne di malaffare!”. Ai bagni Savoia diventai amico di Leo Castelli, che avrei ritrovato a New York, divenuto il più grande mercante d’arte del secolo. Un nipote di Svevo sposò una pittrice, Anna, che sarà la mamma di Susanna Tamaro; che quindi è pronipote dello scrittore».

La Milano dei Navigli
«Da bambino andavo a trovare mia bisnonna, che abitava in corso Venezia, nel palazzo con le quattro colonne al numero 34, costruito da mio prozio. La bisnonna era stata amica di Carducci e mi parlava del Risorgimento: lei c’era. Cent’anni fa Milano era ancora un borgo tranquillo, circondato da orti e cascine. I Navigli erano bellissimi, interrarli è stato un errore. Abituato a città nautiche come Trieste e Genova, Milano mi parve una città d’acqua. Fu un incontro fatale. Passeggiavo lungo il Naviglio che ora è via Senato, andavo in barca nel laghetto di San Marco. Più tardi cominciai a frequentare gli artisti, in particolare Lucio Fontana. Lo vedevo spesso, studiava a Brera con Adolfo Wildt; non tagliava ancora le tele, faceva statue di ceramica, ma era già un grande. Andavo ai concerti con Fausto Melotti e suo cognato Gino Pollini, l’architetto».

L’elettroshock
«Nonostante la passione per l’arte, mi sentivo obbligato a prendere una laurea seria, e mi iscrissi a Medicina. Volevo diventare psichiatra come Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock. Fu lui a insegnarmi come si fa: si mettono due elettrodi alle tempie del paziente, la scossa elettrica gli fa perdere coscienza. Era molto impressionante. Dava qualche risultato, ma si usava anche quando non ce n’era bisogno. Dopo tre anni a Milano mi trasferii a Roma, dove fui allievo e assistente di Cesare Frugoni. Ricordo i primi pazienti che interrogai. Un paranoico si credeva Gesù. Un uomo raccontava di aver partorito quattro gemelli di dieci chili l’uno. Un altro viveva in uno stato di priapismo continuo, e disegnava ovunque maialini. Capii che il mio mestiere non era la medicina, ma l’estetica».

Artù Toscanini
«Alla Scala mi portò per la prima volta lo zio Ernesto: era sordo, ma se sedeva in prima fila con la trombetta d’argento riusciva a sentire qualcosa. C’era Toscanini, dirigeva il Falstaff. Io ero fidanzato con Lalla Gallignani, la figlia di Giuseppe, un faentino legato a Verdi che l’aveva portato a Milano per dirigere il conservatorio. Alla sua morte, Toscanini divenne il tutore di Lalla. Fu lui a portarla all’altare quando ci sposammo. “Artù”, come amava firmarsi, era pieno di umanità, molto alla mano; innamorato delle donne, anche troppo. Suo figlio Walter fu testimone di nozze, il ricevimento lo facemmo a casa Toscanini, in via Durini, e andammo in viaggio di nozze all’Isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà. Le figlie, Wally e Wanda, avevano ereditato l’esuberanza del padre. Dopo la guerra rividi “Artù” a New York. Era molto stanco, ma alle prove gli errori dell’orchestra lo rinvigorivano: “Corpo di una madonnaccia!” urlava gettando la bacchetta».

Il superstite dei lager
«Avevo fatto il militare nel Nizza Cavalleria. Avrei preferito il Savoia, per via delle divise, ma l’impiegato a cui mi ero fatto raccomandare fece confusione. In cavalleria non era obbligatorio il saluto fascista, con mio grande sollievo, perché detestavo il Duce. Allo scoppio della guerra non fui richiamato alle armi, avevo già compiuto trent’anni. Sfollammo in un casolare in Toscana, ma andavo spesso a Firenze, alle Giubbe Rosse. Un testimone mi parlò di piazzale Loreto: non riuscivano a fucilare Starace, catturato in pantofole, perché c’era troppa gente, per sparargli dovettero distenderlo sopra il corpo di Mussolini. L’anatomopatologo Cattabeni, amico e collega, mi disse che dall’autopsia emerse che il Duce stava benissimo, a parte le cicatrici di un’ulcera; le malattie che gli attribuivano erano leggende. Incontrai un ebreo livornese quindicenne, sopravvissuto a Dachau e a Buchenwald: mi raccontò che erano costretti a cibarsi dei compagni morti. E vidi passare la brigata ebraica, con la stella di David — gialla su fondo biancoazzurro — ostentata con baldanza».

Montale e la Mosca
«Montale me lo presentò Bazlen a Trieste: fu Eugenio, che chiamavamo Eusebio, a far conoscere Svevo ai lettori italiani. Lo rividi poi a Genova, a Firenze, a Milano, nella sua casa di via Bigli. Stava con la Mosca, che in realtà si chiamava Drusilla Tanzi, ed era terribilmente gelosa di lui. Teneva mia moglie per ore al telefono per lamentarsi delle rivali, fino a quando Lalla osò dire: “Ma perché non lo lasci un po’ in pace?”. Da un giorno all’altro la mia amicizia con Montale finì. Recuperammo in parte solo dopo la morte della Mosca, nel ‘63».

La Milano di oggi
«Tutto questo slancio, chiedo scusa, non lo vedo. Dopo la Seconda guerra mondiale Milano era diventata la capitale culturale d’Italia, soppiantando Torino, Firenze, Roma. Con Munari e Soldati fondammo l’arte concreta. C’erano il design e la grande editoria: Sereni, Vittorini, che oltretutto era un uomo affabile, a differenza di Moravia, un po’ presuntuoso. Ora la società letteraria non esiste più, e non vedo nuovi protagonisti. L’ultimo è stato Umberto Eco».

La longevità
«Com’è la vita oltre i cent’anni? Non amo l’argomento. Ci si annoia, perché si fatica a leggere. Le novità mi piacciono, ho anche preso il cellulare. Non sono morigerato, ho sempre mangiato le cose che mi piacevano: gli gnocchi alla romana, i carciofi, i tartufi; e i fritti. Sono un discreto cuoco, specialità fiori di zucca. Ho sempre bevuto vino rosso, ho una passione per il cannonau. Una volta lo dissi in tv e vari produttori sardi mi mandarono a casa una cinquantina di bottiglie. Poi purtroppo hanno smesso».

Informazioni su Marco Blaset 154 Articoli
Giornalista economico della Federazione Svizzera e Direttore di Outsider News.

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