Cosa resta della Pantera, l’ultimo movimento di protesta del ‘900 e il primo che usò la tecnologia

Sono passati trent’anni dalla Pantera, il primo movimento di protesta dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ultimo prima della fine della Prima Repubblica. La Pantera fu anche il primo movimento che adottò uno strumento di comunicazione (il fax) per velocizzare i rapporti tra le varie anime (e sedi) della protesta. Oggi il fax fa sorridere come strumento tecnologico ma all’epoca fu una piccola rivoluzione che permise il dilagare a macchia d’olio delle occupazioni studentesche.

pantera movimento

Cento giorni ha ruggito la “Pantera”. Poi col disgelo i suoi artigli sono appassiti e l’urlo si è spento. Fu l’ultimo grande sussulto giovanile del paese, le successive “onde”, a ragion veduta, si possono considerare scosse di assestamento di quel cataclisma iniziato con la contestazione globale del Sessantotto e proseguito con gli sberleffi degli indiani metropolitani nel 1977.

La mancanza dei furori ideologici fornì gli strumenti per far sì che il confronto prendesse il posto dello scontro .

Se ti chiedono del movimento della Pantera grandi cose non se le ricorda nessuno. Perché quel movimento studentesco nato a Palermo nel dicembre dell’89 e che si estese in molte università italiane fino alla primavera del 1990, di veri e propri leader non ne ebbe. Così come non fece in tempo a entrare nell’immaginario di quella generazione che cresceva sotto l’ombra di un muro che cadeva, quello di Berlino.  

L’allora ministro dell’Università, il socialista Antonio Ruberti, aveva pronta la sua riforma che, di fatto, introduceva l’autonomia degli atenei da una parte ma faceva entrare i privati nel pubblico dall’altra. Così partirono le occupazioni in mezza Italia. E siccome proprio in quei giorni a Roma venne avvistata una pantera, il movimento si inventò l’accattivante slogan “la pantera siamo noi“, usando come immagine proprio il felino del Black Panther Party americano, quelli per il potere nero nel ’68 americano.

O meglio, furono due pubblicitari di professione (Fabio Ferri e Stefano Palombi) a regalare la “griffe” al movimento. La pantera perché “non si sa da dove sia spuntata, come questo movimento fiorito in un momento con pochi spazi d’opposizione. Perché anche se fa paura la gente sta dalla sua parte. E poi è imprevedibile, con molte facce, ancora ideologicamente sfuggente”, raccontò Ferri a Repubblica in quei giorni.  

Ma che fine hanno fatto i ragazzi della Pantera? Nessuno di loro, a differenza degli ex sessantottini e affini del ’77, è diventato ministro, o dirigente d’azienda, o direttore di giornale, o attore o regista di fama. Non per adesso, almeno.

Da pantera a iena, nel senso del programma di Italia1: Enrico Lucci, quello che irride politici e personaggi della cultura e dello spettacolo con le sue domande fintamente ingenue, era uno di quei ragazzi della Sapienza e proveniva dalla Fgci, l’organizzazione dei giovani del Pci.

Flavia D’Angeli si candidò a premier con Sinistra Critica nel 2008 (prese lo 0,4%): era da poco fuoriuscita da Rifondazione Comunista insieme a Franco Turigliatto, famoso perché aveva votato contro la fiducia al governo Prodi. Era funzionaria del partito ma si licenziò. Adesso fa l’insegnante (precaria). 

Una ex “pantera” è Franco Coppoli, professore di Italiano e Storia. Fece notizia l’anno scorso perché quando entrava in classe staccava regolarmente il crocifisso dal muro. Venne sospeso dall’insegnamento per un mese e a difenderlo rimasero in pochi, i Cobas e l’unione degli atei e agnostici razionalisti.  

Nando Simeone ci ha scritto un libro su quel movimento, Gli studenti della Pantera (edizioni Alegre). E’ stato vicepresidente del consiglio provinciale di Roma con Rifondazione Comunista: da uomo delle istituzioni sfilava nei cortei per il diritto alla casa, ma anche come privato cittadino non sarebbe stato da meno: infatti lui stesso viveva in una casa occupata a Trastevere. Si era formato alla facoltà di Psicologia del quartiere “rosso” di San Lorenzo, dove insegnava il sacerdote Gerard Lutte: uno che della teologia della Liberazione se ne intendeva e anche bene, tanto che quella facoltà qualcuno la chiamava “Psicaragua”, gioco di parole che si rifaceva all’esperienza della chiesa dei poveri in Nicaragua.

Anubi Lussurgiu D’Avossa scrive di politica a Liberazione, quotidiano di Rifondazione, ed è stato portavoce dei Disobbedienti romani. Venne accusato di aver partecipato al fallito attentato dinamitardo contro la sede della Confindustria nel 1992, fu assolto tre anni dopo. La scrittrice Silvia Balestra fu “panterina” ma a Bologna. Ha pubblicato romanzi con Feltrinelli, Baldini Castoldi Dalai, Rizzoli e Einaudi. Ma se le chiedi della Mondadori ti risponde: “Mai, grazie”. Visse quell’esperienza anche Sher Kan, pakistano presidente della United Asian Workers Association, una fra le prime associazioni di immigrati sorte a Roma. Lo trovarono morto per il freddo a piazza Vittorio a Roma lo scorso dicembre. Negli anni si era impegnato in diverse lotte sociali diventando un punto di riferimento per i migranti della capitale. 

Francesco “Checchino” Antonini è uno di quelli che racconta volentieri di quei mesi della Pantera: adesso fa il giornalista anche lui a Liberazione. Nella pagina dei suoi fan su Facebook c’è scritto che “si ubriaca con Claudio Lolli, ha reso noto il caso Aldrovandi e somiglia in modo inequivocabile a Lenin. Penso basti”. Cosa resta, adesso, di quel movimento? “Avevamo ragione su tante cose – dice oggi Antonini – resta un’istintiva tensione antiliberista ed egualitaria, l’aspirazione a dei modi di vivere alternativi. L’ecologia è figlia di quell’esperienza, la denuncia dell’impoverimento delle università resta un tema attualissimo, l’esperienza dei centri sociali aperti e veicolo di cultura ci viene copiata, magari male, anche da destra”. 

La pantera, quella vera, non è mai stata trovata. Mentre il movimento si sciolse dopo qualche mese e ognuno prese la propria strada. Sconfitti? Sorride, Antonini: “Forse, ma almeno non ci siamo burocratizzati”.

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