58 ore per attraversare l’Atlantico. Il Destriero e quel record italiano lungo 32 anni

L’Italia che ama il mare e le sfide impossibili ha un primato straordinario da festeggiare:  il record della traversata dell’Atlantico stabilito quasi 32 anni fa, il 9 agosto del 1992, dal Destriero, la nave più veloce del mondo.


Costruito in meno di un anno da Fincantieri, il grande scafo in alluminio con monocarena a V profondo, propulsione a idrogetti (motori MTU da 60mila cavalli), 67 metri di lunghezza, 13 di larghezza, percorse 3.106 miglia nautiche, dal faro di Ambrose Light, a New York, al faro di Bishop Rock, nelle isole Scilly, in Inghilterra, senza rifornimento, in 58 ore, 34 minuti, 34 secondi, alla velocità media di 53,09 nodi (con punte di 65/70).

L’impresa valse la conquista del Blue Ribbon, ovvero il Nastro Azzurro, che dal 1933 apparteneva al mitico transatlantico Rex (affondato dagli inglesi nel 1945, a guerra ormai finita, in una azione di rappresaglia), che percorse la distanza impiegando 21 ore e mezzo in più.

Quel primato, rimasto imbattuto, tuttora fa onore all’eccellenza del made in Italy e agli uomini che quell’impresa idearono e realizzarono, in testa il ricco uomo d’affari e principe ismailita Karim Aga Khan, sostenuto dalla Fiat di Gianni Agnelli, dall’Iri di Franco Nobili e da numerosi altri sponsor, tra i quali la General Electric e la MTU. Una sorta di joint venture pubblico-privato con budget di 10 miliardi di vecchie lire (tanto costò l’operazione, escluso il prezzo dell’imbarcazione, mai reso noto), che soltanto un anno dopo sarebbe stato forse impossibile realizzare: il biennio ‘92/’93, infatti, non fu per l’Italia quel che può dirsi un periodo spensierato, né sul piano economico né, tanto meno, su quello della pace sociale. Non ci sarebbero state le condizioni per varare un’impresa apparentemente effimera e costosa, ancorché utile al progresso della progettazione navale.

Il 1992 fu l’anno di Maastricht, della staffetta Andreotti/Amato, della fine della scala mobile, della prima manovra “lacrime e sangue”, di Mani Pulite e di Capaci. Il progetto Destriero, però, era stato studiato sin dal 1989, e a maggio del 1990 era stato firmato il contratto con Fincantieri. La costruzione, eseguita tra Muggiano e Riva Trigoso, durò meno di un ano: a marzo del 1992 la barca era già in acqua, pronta per i primi collaudi, un altro record.

Tutto nacque da un progetto dello studio navale Donald L. Blount and Associated, mirato alla migliore combinazione tra leggerezza, solidità e prestazioni. La propulsione era assicurata da tre turbine a gas General Electric LM 1600 in moduli realizzati dalla tedesca MTU, capaci di sviluppare complessivamente 51.675 hp e collegate a tre idrogetti KaMeWa model 125 tramite riduttori Renk-Tacke. L’autonomia a pieno carico era di oltre 3.000 miglia nautiche con una velocità a pieno carico di oltre 40 nodi e nominale (in dislocamento leggero) di oltre 60 nodi. La prima piastra in alluminio dello scafo venne tagliata a luglio del 1990 e il taglio di tutte le parti che compongono l’intera nave venne completamente gestito attraverso macchine a controllo numerico (CNC); l’assemblaggio della struttura avvenne con le stesse modalità e schemi derivati dalla costruzione delle unità militari della Fincantieri, ma senza trascurare un aspetto importante: l’estetica. E infatti il design delle sovrastrutture venne affidato a Pininfarina, che curò a fondo anche l’aerodinamica.

La direzione dell’operazione fu affidata a Cesare Fiorio, ex capo delle squadre Corse Fiat e Lancia campioni del mondo Rally ed Endurance, della squadra Ferrari di Formula 1, nonché due volte iridato di motonautica offshore. Con lui, Odoardo Mancini (comandante), Aldo Benedetti (comandante in seconda), Sergio Simeone (primo ufficiale), Franco De Mei (operatore di telecomunicazioni), Giuseppe Carbonaro (direttore di macchina), Mario Gando e Nello Andreoli (capi macchinisti), Massimo Robino (elettricista), Silvano Federici e Cesare Quondamatteo (motoristi), Davide Maccario, Giacomo Petriccione, Giuseppe Valenti e Michael Hurrle (tecnici). Una squadra forte e affiatata, che con quell’impresa diede un contributo notevole ai progressi fatti in campo navale. Oggi, infatti, Cesare Fiorio afferma, convinto: «Il record del Destriero segna uno spartiacque nella storia della nautica mondiale. Per tutti, dagli appassionati ai semplici curiosi, c’è stato un “prima Destriero” ed un “dopo Destriero».

Quell’impresa, in effetti, fu per Fincantieri il trampolino di lancio verso la produzione di una nuova generazione di unità navali, tecnologicamente evolute ed in grado di garantire prestazioni importanti. Dopo quell’esperienza del ‘92, al Muggiano (La Spezia) oggi esiste la divisione Fincantieri Yachts, che si occupa esclusivamente della progettazione e costruzione di yacht di lunghezza superiore ai 70 metri (al momento è in lavorazione un gigante di 140 metri). Il colosso della cantieristica italiana, che in quegli anni stava svolgendo ricerca nel settore degli scafi SES 8Surface Effect Ship) per il mercato dei traghetti commerciali, dopo il Destriero si indirizzò esclusivamente sui monoscafi ad alte prestazioni, quelli che oggi chiamiamo “navi veloci” e che trasportano merci e passeggeri a velocità impensabili vent’anni fa. Una svolta ricordata dal presidente di Fincantieri, Corrado Antonini, durante la cerimonia dedicata al ventennale del record, svoltasi il 24 luglio.

In un primo momento il Destriero avrebbe dovuto battere il record navigando da Est a Ovest, dalla costa inglese a quella americana; ma le avverse condizioni meteo non consentirono di spingere a fondo nella traversata d’andata. Al ritorno, invece, l’equipaggio sfruttò un “buco” nel maltempo e realizzò l’impresa. Nelle prime dieci ore c’era mare calmo; nelle successive dieci, onda leggera al traverso. Poi 20 ore ideali di mare, con onda lunghissima di poppa. Nella parte finale, il Destriero incappò nella coda di una perturbazione inglese, con grosse onde al traverso e al mascone di dritta che costrinsero a rallentare. Nelle ultime 15 ore i colpi erano così forti che nessuno dell’equipaggio riuscì a dormire neanche un minuto e tutti rimasero legati alle cinture di sicurezza. “L’emozione di un record ormai a portata di mano era così forte che rinunciammo perfino a bere” – ha raccontato Fiorio.

Il Destriero tenne il mare molto bene e la meccanica non diede problemi, se non qualche piccolo inconveniente. Per un colpo di mare, ad esempio, saltò il programma del pilota automatico, ma il tecnico addetto riuscì a cambiare la scheda del programma e dopo pochi minuti tutto riprese a funzionare bene. Stesso discorso per un tubo laceratosi sbattendo contro una lamiera, anche in questo caso riparato in corsa. Alla fine, record nel record, il Destrierò coprì la maggiore distanza nell’arco di 24 ore: 1.402 miglia nautiche, alla velocità media di 58,4 nodi. Del resto, secondo quanto certificato dalla società di classificazione Det Norske Veritas (DNV), la struttura dell’imbarcazione consentiva velocità fino a 65 nodi con condizioni del mare Forza 4 (con onde di altezza fino 2,5 metri) e fino a 30 nodi con condizioni del mare Forza 5-6 (con onde di altezza fino 5 metri). Dati che testimoniano l’eccezionale rigidità della costruzione, in perfetta sintonia con l’efficienza.

L’impresa tuttavia suscitò polemiche mai sopite con gli inglesi, che misero in discussione il record, sostenendo che non rispondeva al regolamento dell’Hales Trophy, istituito nel 1932 dall’armatore e uomo politico inglese Harold Keates Hales per premiare il record di velocità di qualsiasi tipo di nave passeggeri, purchè di tipo commerciale, che attraversasse l’oceano in entrambe le direzioni. “Ma noi – chiarì a suo tempo Cesare Fiorio – non ci siamo mai iscritti all’Hales Trophy, volevamo invece conquistare il Nastro Azzurro, che è un’altra cosa, e lo abbiamo conquistato con tutte le carte in regola”. Tra l’altro, il record valse all’impresa anche altri due riconoscimenti: il Columbus Trophy dello Yacht Club New York, e il Virgin Trophy, messo in palio dal miliardario inglese Richard Branson, titolare della Virgin Records.

L’assegnazione del Nastro Azzurro avvenne in maniera originale, come lo stesso Fiorio ha raccontato. «Avevamo il nastro già a bordo e nelle giuste dimensioni. Infatti c’è una vecchia formula che il comandante Mancini aveva scovato su documenti antichi che stabilisce le dimensioni esatte di questo nastro in base alla lunghezza della nave, alla sua altezza e alla velocità media. Da questa formula veniva fuori che per il Destriero il Nastro Azzurro dovesse consistere in un pennello, cioè in una striscia di seta azzurra alta 30 centimetri sul bordo d’attacco, e che si assottiglia all’altra estremità dopo una lunghezza di 8 metri e 25 centimetri. Siccome la velocità abbiamo potuto stabilirla solo in vista del traguardo, in quel momento abbiamo tagliato il nastro alla lunghezza esatta. Ad attribuircelo è stata la storia, nel senso che dalla prima metà del secolo scorso le navi di varie nazionalità conquistavano automaticamente questa prestigiosa insegna sulla base di un cronometraggio certo. Noi siamo stati cronometrati ufficialmente al faro di partenza di Ambrose e al faro di arrivo a Bishop Rock, dopo 3110 miglia».

A dirla tutta, anche un’altra polemica accompagnò l’impresa del Destriero, da tutti riconosciuto come imbarcazione italiana (per via della Fincantieri e dei suoi sostenitori, Fiat in testa) ma con bandiera delle Bahamas (Port Nassau) e documenti di proprietà intestati alla Bravo Romeo Ltd, società con sede a Dublino, Irlanda. E oggi? Rimasta qualche anno nella Fincantieri di Muggiano, l’imbarcazione è stata tenuta in esercizio e sottoposta ad una manutenzione abbastanza assidua, poi però è stata trasferita in Inghilterra, dove l’Aga Khan aveva in animo di utilizzarla come base per realizzare un nuovo superyacht. Attualmente si trova in Germania, nel cantiere della Lursen, dove da un paio d’anni si studia su cosa fare per trasformarla.

Informazioni su Gianluigi Mayer 7 Articoli
Operatore allo sviluppo, con esperienza decennale in comunicazione e finanziamenti per l’impresa. Esperto in micro-credito e vicepresidente fondazione Work for World. Collaboratore di alcune testate giornalistiche indipendenti. Appassionato di storia economica e organizzatore amatoriale di eventi e seminari artistico-culturali.

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