Covid, lavoro e ottimismo. Il Rapporto Workforce View 2020

Tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, ADP Research Institute ha intervistato oltre 32.000 lavoratori in 17 paesi per cercare di capire come si sentivano e quali opinioni avevano in merito a varie problematiche relative all’ambiente di lavoro.

I risultati sono illustrati in The Workforce View 2020 Volume uno: report prima di COVID-19. In seguito, l’inizio della pandemia ha innescato importanti cambiamenti nel mondo del lavoro, modificando le prospettive dei datori di lavoro e dei dipendenti. È stato quindi importante ritornare sulla ricerca per valutare come sono cambiati i comportamenti da allora.

A maggio 2020, ADP ha intervistato oltre 11.000 lavoratori in 6 dei paesi coinvolti, per capire le loro opinioni riguardo a questioni chiave nel mondo dopo il COVID. Questi Paesi sono stati selezionati come campioni rappresentativi appropriati di quel periodo nelle varie aree geografiche: Asia Pacifico, Europa, America del Nord e America Latina. Nel volume due ADP presenta i risultati che, paragonati ai risultati registrati nelle stesse aree geografiche nel gennaio 2020, offrono un quadro chiaro delle opinioni dei lavoratori subito prima e dopo la diffusione del virus.

Un dato è certo: l’impatto e le conseguenze della pandemia cambiano in modo repentino. Nuovi sviluppi si producono di settimana in settimana e talvolta di giorno in giorno, mentre si assiste a cambiamenti significativi in diversi luoghi e settori industriali, o da un’azienda all’altra. Tuttavia, far luce su queste problematiche, nelle aree geografiche identificate, nei due periodi di tempo evidenziati, fornisce informazioni determinanti per aiutare i datori di lavoro a sostenere la propria forza lavoro e quindi le proprie aziende in questi tempi difficili.

Cinque punti essenziali

1. L’ottimismo non si affievolisce: la fiducia è calata meno del previsto: l’84% dei lavoratori è ancora ottimista riguardo alla situazione lavorativa dei prossimi cinque anni (in calo rispetto all’86% registrato prima della pandemia), mentre il 75% si sente fiducioso per l’anno a venire. Quando si parla di ottimismo, sono i giovani a registrare le percentuali più elevate.

2. Durata limitata del posto di lavoro nel contesto attuale: più di un lavoratore su cinque (22%) ritiene che il suo lavoro non esisterà tra cinque anni, rapporto che sale a uno su tre (33%) nell’area APAC. Tuttavia, la maggior parte (65%) è ottimista riguardo alla flessibilità di opportunità che avrà in futuro e questa percentuale rimane praticamente invariata rispetto a prima della crisi.

3. La discriminazione percepita rimane diffusa: la proporzione complessiva di lavoratori che affermano di sentirsi discriminati dal datore di lavoro rimane stabile a uno su tre. I casi di discriminazione percepita sono aumentati nelle aree APAC e America del Nord sin da prima dell’epidemia di COVID-19, mentre in Europa si assiste a una lieve diminuzione.

4. Aumento del lavoro flessibile: con l’impennata del lavoro a distanza, la percentuale di datori di lavoro che dispone di politiche ufficiali relative al lavoro flessibile sale al 44% rispetto al 24% che si registrava prima dell’epidemia di COVID-19. Oltre la metà degli intervistati (54%) ha, tuttavia, indicato di essersi sentito sotto pressione e obbligato a doversi recare al lavoro durante la pandemia.

5. Sacrifici a livello di retribuzioni: il totale delle ore di straordinario che i lavoratori stanno eseguendo è aumentato in media di un’ora dalla crisi di COVID-19. Quasi due lavoratori su cinque (38%) sarebbero disposti ad accettare una riduzione dello stipendio se necessario per salvare posti di lavoro a causa del COVID-19, ma uno su tre (32%) non è disposto ad accettare alcuna modifica, né riduzioni né dilazionamenti dello stipendio, anche se ciò potrebbe significare salvare posti di lavoro. La gig economy impone scelte difficili: l’interesse per i lavori della gig economy non si è attenuato dopo la pandemia, tutt’altro: si è registrato un lieve aumento. Ciò nonostante, i gig worker sono più disposti rispetto ai lavoratori regolari ad accettare tagli alle retribuzioni, maggiori dilazionamenti degli stipendi o addirittura la risoluzione del rapporto di lavoro al fine di salvare posti di lavoro durante l’epidemia di COVID-19. Sono più propensi a lavorare più ore di straordinario o si sentono maggiormente sotto pressione e obbligati a recarsi al lavoro durante l’imposizione delle misure restrittive.

Guardando al futuro, le prospettive per i prossimi cinque anni rimangono per lo più invariate: a maggio 2020, l’84% degli intervistati risulta ancora ottimista. Ma come abbiamo notato all’inizio dell’anno, le differenze geografiche sono degne di nota. Con la riduzione dell’8% dei livelli di ottimismo, pur partendo da un punto ben più elevato, l’area APAC si è allineata con la media globale. Questo calo indica che i dipendenti nell’area APAC non sono più tra i più ottimisti, titolo che ora spetta all’America Latina (rappresentata dal Brasile), che prima della pandemia si trovava al secondo posto. In Europa i lavoratori, invece, continuano ad essere ottimisti rispetto a gennaio 2020, mentre in America del Nord (rappresentata dagli USA) il dato è cresciuto del 5%.

Ottimismo?

Nel breve termine, i lavoratori non sono così ottimisti per il futuro e non c’è da meravigliarsi: le misure di contenimento del virus sono ancora in vigore in molte zone ed è difficile fare delle previsioni accurate per il futuro. A questo si aggiunge il fatto che nei diversi Paesi e settori sono state messe in atto misure restrittive differenti e con tempistiche diverse, in termini di continuità delle attività aziendali, riapertura e ripartenza, e approcci diversi persino a livello di reparti nelle organizzazioni. Ciò nonostante, due terzi dei dipendenti si sentono ottimisti riguardo ai prossimi sei mesi e i tre quarti hanno una visione positiva per l’anno a venire. Tuttavia, la fiducia tra i lavoratori europei si sta affievolendo. Anche se di poco: oltre la metà è ottimista riguardo ai prossimi sei mesi, rispetto a quattro su cinque nell’area APAC. Questa tendenza è coerente con la prospettiva a lungo termine (cinque anni) che si evidenziava prima dell’epidemia di COVID-19, ma potrebbe in parte riflettere il fatto che Paesi come la Cina si trovano in una fase avanzata dell’infezione e della curva di recupero.

A gennaio 2020, l’ottimismo sull’ambiente di lavoro era inversamente proporzionale all’età, ovvero interessava in maniera meno marcata i lavoratori più anziani. A maggio 2020 si può dire lo stesso, i lavoratori più giovani rimangono i più ottimisti, in modo particolare rispetto ai prossimi sei e dodici mesi. Tre lavoratori su quattro tra i 18 e i 24 anni sono ottimisti riguardo ai prossimi sei mesi, rispetto a solo uno su due nella fascia superiore ai 55 anni. Questa differenza di circa 25 punti percentuali si assottiglia considerevolmente quando si tratta di previsioni riguardo al futuro, con una differenza di soli 5 punti percentuali tra i lavoratori più giovani e quelli più anziani rispetto all’ambiente di lavoro da qui a cinque anni.

In questo contesto di ottimismo, è opportuno valutare ciò che i lavoratori si aspettano dal futuro del loro posto di lavoro. Complessivamente, la proporzione di lavoratori che non pensa che il proprio lavoro attuale esisterà tra cinque anni è simile alla percentuale registrata prima e subito dopo l’epidemia di COVID-19, ovvero inferiore al 25%. Tuttavia, le differenze geografiche sono particolarmente marcate. Nell’area APAC, il 44% degli intervistati in India ritiene che la propria posizione non esisterà più da qui al 2025, con un incremento di 7 punti percentuali dall’inizio della pandemia di coronavirus. Fa da contraltare la Cina dove solo il 22% condivide questa opinione, con un calo di 17 punti percentuali rispetto al periodo precedente.

Tra gli intervistati in America Latina (ovvero in Brasile), solo il 12% ritiene che il proprio posto di lavoro scomparirà entro questa data. Mentre le risposte dei lavoratori nordamericani (almeno negli USA) prima dell’epidemia erano generalmente in linea con quelle dei lavoratori europei, la situazione è ora cambiata, con un aumento di 7 punti percentuali della proporzione di lavoratori che vede la fine del proprio lavoro entro cinque anni.

Lavoro flessibile

Nel breve termine, la pandemia di COVID-19 ha rappresentato una spinta verso il lavoro flessibile, con lo spostamento in massa al lavoro a distanza, stravolgendo la tradizionale giornata lavorativa e pratiche lavorative basate sulla presenza fisica sul posto di lavoro. I datori di lavoro si stanno rapidamente adattando. Circa la metà (44%) degli intervistati afferma che i datori di lavoro dispongono ora di politiche ufficiali per il lavoro flessibile, rispetto a solo uno su quattro (24%) che si registrava in precedenza, mentre la proporzione di intervistati che afferma che i dirigenti lo consentono è passata dal 19% al 28%. La metà o più degli intervistati dell’area APAC e America Latina sono più propensi ad affermare che i propri datori di lavoro dispongono di politiche formali, con un aumento di un quarto rispetto al passato, mentre in Europa ciò vale solo per un lavoratore su tre, con un aumento di meno di uno su quattro.

Nonostante questi progressi, c’è ancora molta strada da fare per incoraggiare i lavoratori a sfruttare le opportunità di lavoro flessibile, con solo un quarto di essi pronto a farlo, una proporzione che è cambiata a malapena dopo la crisi di COVID-19. La ragione potrebbe essere dovuta a messaggi contraddittori. Sebbene i datori di lavoro sembrino accettare sempre di più di buon grado il lavoro flessibile, più della metà degli intervistati dichiara che durante la pandemia si è sentita sotto pressione e obbligata dal proprio datore di lavoro a presentarsi sul luogo di lavoro, nonostante le linee guida del governo suggerissero ai lavoratori non essenziali di rimanere a casa. Alcuni indicatori evidenziano persino che quando i dirigenti e il reparto HR suggeriscono di rimanere a casa, i livelli dirigenziali inferiori prendono decisioni del tutto personali. Di fatto, il 16% dei lavoratori dichiara che sono i singoli responsabili a decidere se consentire il lavoro flessibile, a prescindere dalle politiche ufficiali dell’azienda. La proporzione di intervistati che dichiara di sentirsi obbligata a essere fisicamente presente sul posto di lavoro è quasi il doppio nell’area APAC rispetto all’Europa (74% rispetto al 38%). Tuttavia, in Spagna, nonostante severe misure restrittive, circa la metà degli intervistati (45%) si è sentita sotto pressione e obbligata a recarsi al lavoro.

Sacrifici a livello di retribuzioni

Se il presentismo sul posto di lavoro è stato a lungo dilagante, oggi con l’epidemia di COVID-19 i lavoratori stanno offrendo sempre più ore del loro tempo libero senza essere retribuiti. I dipendenti affermano di lavorare in media sette ore di straordinario non retribuite alla settimana, con un aumento di sei ore rispetto alle risposte fornite prima dell’epidemia COVID-19. Nell’area APAC, i lavoratori dichiarano di lavorare in media nove ore in più, circa il doppio della media dei lavoratori in America Latina (rappresentata dal Brasile). Va, tuttavia, osservato che la Cina è l’unico Paese dove la media di ore di straordinario non retribuite è scesa dall’inizio della pandemia. Tuttavia, poiché ciò potrebbe essere dovuto all’implementazione di misure restrittive precoci, alla chiusura o riduzione della produttività di alcune aziende, sarà interessante osservare se in altri Paesi si verificheranno le stesse tendenze. Circa un quinto (19%) dei lavoratori afferma di lavorare 11 o più ore non retribuite ogni settimana, in aumento dal 15% registrato prima dell’epidemia. Questa percentuale raggiunge il 28% nell’area APAC, pur attestandosi anche in questo caso su valori decisamente più bassi in Cina. In America del Nord (rappresentata dagli USA) si registra un incremento significativo del lavoro non retribuito tra gli intervistati, con una percentuale di 11 ore o più di straordinario pressoché raddoppiata in pochi mesi. Un aumento dovuto probabilmente a diversi fattori: dalla preoccupazione per la sicurezza del lavoro, che incita le persone a lavorare più sodo per dimostrare il proprio valore, alla difficoltà dei lavoratori a “staccare” quando si lavora da casa. A prescindere dai motivi, i datori di lavoro dovranno valutare se questi atteggiamenti si traducono in un incremento della produttività e monitorare attentamente il conseguente impatto sui livelli di stress e la soddisfazione lavorativa.

Le prospettive per i datori di lavoro

Nonostante le conseguenze immediate dell’epidemia di COVID-19 siano state significative, le implicazioni a lungo termine rimangono incerte. La situazione potrebbe non tornare mai più come prima, ma gli ostacoli da superare rappresentano anche una possibilità che il mondo del lavoro evolva in maniera assolutamente positiva. Nel mondo dopo l’epidemia di COVID-19, le strutture aziendali tradizionali potrebbero dover essere ridefinite per adattarsi in modo più attento alle necessità fondamentali dei lavoratori, oltre ai requisiti dell’organizzazione in sé. Un più stretto allineamento tra datori di lavoro e dipendenti non può che essere positivo e tradursi in una cultura del lavoro più dinamica e in una forza lavoro più produttiva e soddisfatta. Tutto ciò si basa sulla capacità di comprendere le prospettive di coloro che saranno direttamente coinvolti da questi cambiamenti, ovvero i lavoratori. Le aziende dicono spesso che il personale è la loro risorsa principale. Se questo è vero, l’analisi delle opinioni della forza lavoro non è mai stata tanto importante come quest’anno.

Giorgio Nadali
Informazioni su Giorgio Nadali 16 Articoli
Giornalista e docente di "Comunicazione e Successo" e "Religioni e Società" c/o Università UniTre, Milano. Titolare di "Giorgio Nadali Giornalismo, Coaching, Formazione". Autore di 14 libri pubblicati con 7 Editori. 2 libri presenti c/o Università di Harvard, USA. Performance Executive Coach per aziende. Ha pubblicato nel 2017 “Buoni & Vincenti. Etica e spiritualità del successo e del denaro, Edizioni Segno, Udine, 2017 e “Chi non si accontenta gode. Accontentarsi della mediocrità è un “crimine”. Scopri le tue capacità per avere ed essere di più”, Lampi di Stampa, Milano, 2018. Il suo nuovo libro è “Talento e Fortuna. Strategia, Psicologia e Spiritualità del Talento e della Fortuna”, Edizioni Segno, Udine, 2020. Ha realizzato servizi e articoli per: Focus, Forbes, Stop, Vero, GQ, Vanity Fair, Luxuo, Rivista Donna, Economy Mag, Fortune Italia, Economia Italiana, Maxim, Esquire, Notizie Nazionali, MarkUp, Inews Swiss, Il Giornale delle Partite IVA, Il Giornale delle Piccole e Medie Imprese, 24 Ore News, Beesness, Voglio vivere così! Magazine, Start Franchising, Global Franchise, QC Magazine, Donna Dominante, Cessari Luxury Magazine, Milano Today, Affari Italiani, Miracoli, Maria, Airone, Jesus, Radici cristiane, Il mio Papa, Vita, Santità, La Voce d’Italia, Ipus News, Tempi, Playboy, Popoli, Mens’ Wall, Studi cattolici, Time is Now.