L’infedeltà aziendale sta diventando un fenomeno sempre più diffuso. Una volta gli imprenditori dovevano guardarsi dal dipendente che rubava in cassa, oggi invece siamo di fronte ad un “ecosistema di micro-tradimenti quotidiani che sommati diventano una perdita strutturale“, come lo ha definito Fabio Di Venosa, che guida il Centro Servizi Investigativi, un’agenzia di investigazioni specializzata in indagini business, a cui abbiamo chiesto di descriverci le varie sfaccettature delle infedeltà aziendali e le possibili strategie per prevenirle.

Dott. Di Venosa, come definisce oggi il fenomeno dell’infedeltà aziendale e quali sono le forme più diffuse che riscontra nelle imprese italiane?
Oggi l’infedeltà aziendale non è più, solamente, il dipendente che “ruba in cassa” o il collaboratore che fa il furbo: è un ecosistema di micro-tradimenti quotidiani che sommati diventano una perdita strutturale. La definisco così: l’uso del ruolo aziendale per un interesse personale o di terzi in danno dell’impresa, spesso in modo graduale, quasi invisibile, e quasi sempre razionalizzato da chi la commette: “tanto lo fanno tutti”, “mi pagano poco”, “è solo un file”. Le forme più diffuse che incontriamo, nel lavoro sul campo del Centro Servizi Investigativi, sono la concorrenza sleale mascherata (doppio lavoro, clienti dirottati, preventivi paralleli), il furto o la fuga di informazioni (listini, database clienti, know-how, strategie commerciali), gli abusi di fiducia (spese non dovute, rimborsi creativi, uso improprio di asset aziendali), e poi l’area più sottovalutata: il sabotaggio morbido, fatto di ritardi intenzionali, disallineamenti, omissioni, errori ripetuti sempre nella stessa direzione. Non fa rumore, ma svuota l’azienda dall’interno.
Quali segnali deboli o comportamenti ricorrenti possono far intuire a un imprenditore che all’interno dell’azienda è in atto una condotta infedele?
L’infedeltà, quasi mai, inizia con un colpo grosso. Inizia con un cambio di postura. I segnali deboli sono soprattutto incoerenze: numeri che non tornano, performance che calano senza spiegazione credibile, clienti storici che spariscono e ricompaiono altrove, preventivi che vengono sistematicamente persi su trattative dove prima si chiudeva. Poi ci sono segnali umani: iper riservatezza improvvisa, difesa aggressiva del proprio perimetro, rifiuto di delegare, ansia quando si parla di procedure o audit. E attenzione a un classico: il classico dipendente insostituibile che diventa un monopolista dell’informazione. Non è una colpa automatica, ma è un rischio organizzativo. Qui serve freddezza: il compito dell’imprenditore non è sospettare di tutti, è riconoscere pattern, e quando i pattern si ripetono, passare dalla sensazione alla verifica, perché chi sospetta non aspetta, indaga.
In quali settori o contesti organizzativi l’infedeltà aziendale si manifesta con maggiore frequenza e perché?
Non è una questione di settori cattivi, è una questione di opportunità + accesso + bassa tracciabilità. Accade di più dove il valore è mobile e copiabile: commerciale, distribuzione, servizi, consulenza, logistica, ICT, ma anche contesti più tradizionali dove girano dati e relazioni. I contesti più esposti sono quelli con filiere lunghe, tante terze parti, agenti, procacciatori, fornitori amici, e dove la cultura del controllo è scambiata per sfiducia. Paradosso: le aziende più dinamiche, se non strutturano governance e controlli, diventano le più vulnerabili, perché crescono più in fretta dei loro sistemi di protezione. E c’è un punto delicato che vedo spesso: l’azienda familiare che si affida alla fiducia personale come unico firewall. La fiducia è preziosa, ma senza verifica diventa un invito a nozze. Io dico sempre, fidati, ma verifica.
Che ruolo può svolgere un’agenzia investigativa nella prevenzione dell’infedeltà, prima che il danno economico o reputazionale si concretizzi?
Il ruolo è semplice e scomodo: rendere visibile l’invisibile prima che diventi irreparabile. Un’agenzia investigativa seria non arriva quando l’azienda è già in fumo: lavora perché l’incendio non parta. Prevenzione significa assessment dei rischi reali non quelli “da manuale”, analisi dei punti ciechi, procedure di segnalazione e verifica, e soprattutto una cosa che i manager apprezzano: la capacità di passare dal sospetto al fatto. Perché l’imprenditore può anche avere un ottimo fiuto, ma l’azienda non si governa a intuito: si governa con evidenze. E un’indagine preventiva, impostata bene, spesso non punisce nessuno: corregge processi, protegge asset e riduce la tentazione. In pratica: meno occasioni, meno alibi, meno danni. E su questo siamo i migliori, infatti lavoriamo nell’ombra per fare chiarezza.
Quali strumenti investigativi e metodologie vengono utilizzati per individuare casi di concorrenza sleale, furto di informazioni o abuso di fiducia da parte di dipendenti e collaboratori?
Qui bisogna essere chiari: non esiste la bacchetta magica, esiste il metodo. Noi lavoriamo con un impianto che unisce osservazione sul campo, riscontri, analisi documentale, componenti digitali e forensi, sempre nel perimetro lecito e utile. La concorrenza sleale, ad esempio, raramente si prova con una frase rubata: si prova con condotte, con ripetizioni, con contatti, con dinamiche commerciali che si incastrano come ingranaggi. Il furto di informazioni non è quasi mai un hacker esterno: spesso è la chiavetta, il cloud personale, l’inoltro, la foto allo schermo, il “te lo mando su WhatsApp che faccio prima”. La metodologia seria non è inseguire fantasmi: è costruire una catena logica di riscontri, verificare tempi, luoghi, relazioni, accessi, e arrivare a un output che regga davanti a un legale, a un HR e se necessario, a un giudice. Il nostro lavoro, in sostanza, è trasformare un dubbio aziendale in un quadro oggettivo e difendibile.
Quanto è importante la raccolta di prove legalmente utilizzabili e come si garantisce il rispetto della normativa su privacy e lavoro?
È tutto. Senza prove utilizzabili, l’azienda resta con una sensazione in mano e un problema intatto. Una prova raccolta male non è solo inutile: può diventare un boomerang a livello economico e reputazionale. Per questo chi fa investigazioni aziendali deve conoscere davvero il confine tra ciò che è legittimo e ciò che è tossico, soprattutto su privacy e lavoro. Il punto non è fare i furbi, il punto è fare bene: impostare l’attività come controllo difensivo quando ne ricorrono i presupposti, limitare la raccolta al necessario, rispettare proporzionalità e pertinenza, documentare correttamente ogni passaggio. In un mercato dove molti improvvisano, la differenza tra un professionista autorizzato e un dilettante è che il professionista sa ottenere risultati senza mettere l’azienda nei guai. È anche per questo che esistono licenze, regole, e competenze: l’agenzia investigativa non è un optional, è uno strumento di tutela indispensabile quando è guidato da metodo e diritto.
Quale è il costo reale dell’infedeltà aziendale per un’impresa, non solo in termini economici ma anche di clima interno e credibilità sul mercato?
Il costo economico è la parte che si misura. Il costo vero è quello che si propaga. Un caso di infedeltà non gestito bene genera tre effetti collaterali devastanti: sfiducia interna, perché i migliori si chiedono “perché io rispetto le regole?”; disordine gestionale, perché l’azienda entra in modalità reattiva e perde focus; fragilità reputazionale, perché clienti e partner percepiscono instabilità anche quando nessuno dice nulla. E poi c’è il costo più subdolo: la normalizzazione. Se passa il messaggio che si può fare, non hai più un episodio, hai un modello. Da lì in avanti, ogni controllo diventa più difficile e ogni persona corretta si sente più sola. Per questo io dico spesso ai manager: l’infedeltà aziendale non è un problema disciplinare, è un problema di governance.
L’attività investigativa può diventare parte di una strategia di governance e controllo aziendale strutturata? In che modo?
Non solo può: in molte aziende evolute già lo è, anche se spesso non lo chiamano “investigazioni” per pudore semantico. È una componente di risk management. Inserita bene, l’attività investigativa diventa un presidio periodico: audit mirati su aree a rischio, supporto a HR e legal nei casi sensibili, verifiche su segnalazioni, due diligence su collaboratori e partner in ruoli critici, tutela del patrimonio informativo. Il punto, però, è farlo con intelligenza: l’investigazione non sostituisce i processi, li rafforza. E soprattutto introduce un principio manageriale sano: le decisioni difficili si prendono sui fatti, non sulle impressioni, non sulle simpatie, non sui “mi hanno detto”. È qui che un’agenzia come Centro Servizi Investigativi diventa un alleato del management: discrezione, metodo, output utilizzabile.
Che consiglio darebbe agli imprenditori per proteggere il proprio patrimonio informativo e umano senza creare un clima di sfiducia in azienda?
Il consiglio è controintuitivo: non serve diventare sospettosi, serve diventare strutturati. La fiducia non si rompe con i controlli; si rompe con l’arbitrarietà. Se le regole sono chiare, le procedure sensate e i controlli proporzionati, le persone serie respirano meglio, non peggio. Proteggere il patrimonio informativo significa definire accessi, tracciabilità, ruoli, e cultura del dato. Proteggere il patrimonio umano significa ascoltare i segnali di malessere prima che diventino rancore operativo. E quando emerge un sospetto, evitare due errori opposti: far finta di nulla o partire in modalità caccia alle streghe. Il modo professionale è uno solo: verificare con discrezione, raccogliere elementi oggettivi, e intervenire in modo coerente. Se l’azienda mostra che tutela sé stessa con equità, la fiducia aumenta. Se invece improvvisa, crea paura.
Guardando al futuro, come evolverà il fenomeno dell’infedeltà aziendale con la digitalizzazione e quali nuove sfide attendono le agenzie investigative?
La digitalizzazione ha già spostato il baricentro: oggi si tradisce più spesso con un click che con un camion. Il futuro renderà tutto più veloce: dati che viaggiano su canali personali, strumenti AI che possono copiare, riscrivere, estrarre e “ripulire” informazioni in pochi secondi, identità digitali più opache, un confine sempre più sottile tra lavoro e vita privata nei dispositivi e nei canali. La sfida per le agenzie investigative è doppia: da un lato padroneggiare la complessità tecnica, dall’altro mantenere la bussola legale ed etica, perché la tentazione di fare scorciatoie aumenterà. In parallelo crescerà la domanda di aziende che vogliono proteggersi senza fare rumore, e qui l’investigatore privato torna al centro: lavoriamo nell’ombra per fare chiarezza, ma quella chiarezza, oggi più che mai, è un asset competitivo. Chi capisce in tempo cosa sta succedendo dentro la propria organizzazione non è paranoico: è un imprenditore che governa e prospera.

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