Summit Iran, Russia e Turchia: fronte comune, interessi divergenti

All’inizio di settembre si è svolto a Teheran un vertice tra i presidenti di Turchia, Recep Tayyip Erdogan, di Iran, Hassan Rouhani, e il russo Vladimir Putin, sul futuro della provincia di Idlib in Siria. Già lo scorso aprile, l’incontro ad Ankara tra i tre leader aveva facilitato scambi commerciali tra i tre paesi e accelerato la realizzazione del Turkish Stream.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, alla vigilia del vertice aveva avvertito il presidente siriano Bashar al-Assad che qualsiasi massacro a Idlib, ultima enclave dello Stato islamico (Isis) in Siria, non sarebbe stato tollerato. Nella conferenza stampa finale, i tre leader hanno espresso la loro volontà di eliminare l’Isis, il fronte al-Nusra e gli altri gruppi legati ad al-Qaeda. Non solo, il comunicato finale del vertice contiene un invito rivolto alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale per l’invio di aiuti umanitari in Siria e a partecipare alla ricostruzione del paese.

Ancora divisi sul futuro di Idlib

I tre leader si sono mostrati divisi su molti dei punti chiave del vertice. Oltre alle critiche alle strategie degli Stati Uniti in Siria, Russia, Iran e Turchia si sono detti vicini alle Forze democratiche siriane (SDF), coalizione che include curdi e milizie arabe.

Il presidente turco ha proposto di posticipare l’offensiva su Idlib o di limitarla soltanto ad Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo legato ad al-Qaeda. Una settimana prima del vertice di Teheran, le autorità turche hanno designato HTS come organizzazione terroristica, in linea con le posizioni di Nazioni Unite e Stati Uniti. HTS controlla il 60% di Idlib. Le autorità turche hanno sostenuto invece il Fronte di liberazione nazionale (NLF), vicino all’Esercito libero siriano (ELS). In caso di offensiva, le autorità turche potrebbero favorire lo spostamento dei rifugiati nei territori controllati dalla Turchia nel Nord della Siria. Parte dei rifugiati potrebbero essere ricollocati nell’enclave curda di Afrin, ora sotto il completo controllo turco in seguito all’Operazione ramoscello di Ulivo, avviata lo scorso gennaio.

Alcuni combattenti delle Unità di protezione popolare curda (YPG) potrebbero prendere parte all’offensiva di Idlib, insieme alle forze regolari di al-Assad. Un eventuale rafforzamento dei combattenti curdi nel Nord della Siria sarebbe tra i principali motivi di preoccupazione per Erdogan, impegnato nella frammentazione dei territori curdi in Siria. La Turchia è riuscita ad ottenere il controllo di una vasta regione a Nord di Idlib grazie alla politica dilaissez-faire di Russia e Iran. Nel 2016, permettendo il controllo dei ribelli pro-russi su Aleppo Est, la Turchia ha avuto disco verde per l’offensiva contro Isis a Jarablus e al-Bab. Nel 2017, la Turchia ha spinto i ribelli islamisti a Idlib ottenendo da Mosca il via libera per scacciare i combattenti curdi di Afrin. Per questo, Erdogan ha ammesso l’interesse strategico che ha la città per gli interessi turchi in Siria: «Idlib non è importante solo per il futuro della Siria, è d’importanza per la nostra sicurezza nazionale». Dal canto suo, il presidente russo Putin si è detto scettico sulla possibile tenuta di un cessate il fuoco. «Non posso garantire che i terroristi di Jabhat al-Nusra o dello Stato islamico smetteranno di sparare», ha detto. Infine, secondo il presidente iraniano Hassan Rouhani, le autorità di Damasco dovrebbero riprendere il controllo di tutto il territorio e gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare definitivamente il paese.

L’Iran e l’accordo nucleare

L’Iran si trova alla vigilia dell’imposizione di nuove sanzioni Usa contro Teheran. Lo scorso 6 agosto sono tornate le misure di Washington in seguito alla decisione di Trump di decertificare il rispetto iraniano degli accordi, raggiunti a Vienna nel 2015. Le prime sanzioni hanno riguardato: l’acquisto di dollari da parte del governo iraniano, il commercio in oro e metalli preziosi, la vendita diretta o indiretta, la fornitura e il trasferimento verso o dall’Iran di grafite, metalli grezzi o semilavorati come alluminio, acciaio, carbone e software per l’integrazione dei processi industriali, le transazioni in merito ad acquisto o vendita di rial iraniani, o il mantenimento di conti in rial al di fuori del territorio iraniano, l’acquisto, la sottoscrizione o la facilitazione dell’emissione di debito sovrano iraniano.

Le sanzioni secondarie includono poi tutti gli altri paesi che continueranno ad avere relazioni economiche e commerciali con il paese. Nei confronti delle aziende di questi paesi, gli USA possono decidere di limitare le relazioni economiche o di proibirle completamente. Questa estensione delle misure sanzionatorie ai paesi europei, in particolare, sta provocando una continua rinuncia a proseguire nei progetti di investimenti esteri in Iran soprattutto da parte di aziende francesi ma non solo. Sebbene gli Usa non abbiano mai davvero cancellato le sanzioni contro Teheran, come promesso con l’entrata in vigore dell’intesa nel gennaio 2016, queste nuove misure potrebbero provocare la fine dell’accordo di Vienna, nonostante gli sforzi dell’Alto commissario per la politica estera dell’Unione europea, Federica Mogherini, di mantenerlo in vita.

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