Venti anni senza Gianni Agnelli. Stile, vezzi e passioni di una personalità inquieta

Il 24 gennaio 2003 moriva dopo una lunga malattia Gianni Agnelli. L’Avvocato per eccellenza del capitalismo italiano è ancora ricordato come uno dei grandi protagonisti del Novecento.

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Lo stile è come il coraggio, chi non ce l’ha non se lo può dare. E Gianni Agnelli aveva uno stile irraggiungibile. Tutti gli invidiarono il vestirsi, il comportarsi, il parlare, il guidare un’auto a gran velocità o una barca a vela in mezzo alla tempesta alle Bocche di Bonifacio, il sorridere a una donna, il parlare con un soldato della Legione straniera incontrato davanti a un pastis gelato in un bar di Calvi.

Uomini diversi, potenti e molto ricchi, più ricchi di lui, hanno sempre riconosciuto la supremazia dell’Avvocato, «The King of Italy», come lo chiamava il suo amico Jack Kennedy, Presidente degli Stati Uniti. Henry Ford, Stavros Niarchos, Ari Onassis dicevano che l’Avvocato gli aveva insegnato a vivere, a vestirsi, ad arredare una casa, una barca, un aereo, e perfino a corteggiare una donna.

Onassis impazziva per i blazer, disegnati sul corpo da Tommy Caraceni, coi quali Agnelli guardava le albe a bordo del Capricia. Niarchos, uomo molto spregiudicato, era sconvolto dalle sue stravaganze sorprendenti, dovute a pura genialità e finite sui giornali: il tuffo tutto nudo dalla barca a vela al largo della Costa Azzurra, nuotate con Grace Kelly off-shore Monte Carlo, la festa mascherata con Truman Capote e tutta l’America in black and white alla Ballroom del Plaza a New York.

Porfirio Rubirosa avrebbe voluto possedere la sua villa a Beaulieu, la stupefacente Leopolda, lo scrigno della bellezza e del glamour degli Anni 50 e 60, gli anni d’oro, «i più belli del secolo», secondo Agnelli, che comunque lavorò e si divertì parecchio anche nei 70 e negli 80. Il raggio d’azione «dell’uomo meglio vestito nella storia del mondo», come scrisse la rivista «Esquire», non aveva confini. Perché cambiava posto e gente senza tregua.

L’amata Torino, nella case di corso Matteotti prima e a Villa Frescot poi. Villar Perosa dove gli piaceva, d’inverno, guardar cadere la neve sul prato. Roma, nell’appartamento al Quirinale che domina la città, un piacere da imperatore. Parigi, con casa sugli Invalides, il monumento agli eroi di guerra che sempre commuovono un bravo soldato. Londra, nella suite del Claridge’s, per ricevere e riflettere prima dei grandi business. New York, 72.ma e Park Avenue, l’indirizzo più amato dopo Torino. Casa de Campo, da Oscar de La Renta, intervallo divertente con la musica mariachi. Brasile al Copacabana Palace, per affari, fabbriche di auto e serate incantevoli dai de Portago.

Gli ospiti e gli amici, da Jackie Kennedy a Pamela Harriman, da Katherine Graham ai fratelli Kennedy, da Oleg Cassini a Diana Vreeland, amavano la conversazione colta dell’Avvocato: inglese brillante, internazionale, temi alti o bassi ma sempre cosmopoliti. Amava tanto l’Italia e gli italiani ma gli piaceva stare fuori per respirare arie diverse.

Parlava di politica estera come una cronaca del «New York Times» o un saggio di «Foreign Affairs», di costume come una cover story di «Vanity Fair». Era un imprenditore, ma anche uno scrittore e giornalista mancato (un suo cruccio non aver intrapreso la carriera del reporter di guerra). In Italia, fino alla metà degli Anni 60, Gianni Agnelli non aveva avuto la popolarità ottenuta in Francia (ne sa qualcosa Benno Graziani, la prima firma e il primo fotografo di «Paris Match»). Ma poi i riflettori si accesero su di lui e non lo mollarono fino alla morte.

Gli italiani impararono ad ammirare, e quasi adorare, l’Agnelli imprenditore, il presidente della Fiat e di Confindustria, il finanziere intraprendente, l’italiano più stimato all’estero e considerato «il re» che non avevano più. Casa Agnelli diventò come Casa Windsor. Gli «Agnellofili», imitatori del suo stile, spuntarono a migliaia nel mondo dei benestanti e dei nuovi ricchi che volevano avere i suoi vezzi. L’orologio sul polsino della camicia dei Brooks Brothers, portata con le punte del collo slacciate o le cravatte sopra il pullover. Non si ha idea di quanti italiani abbiano affollato, nei corso dei decenni, il negozio dei Brooks in Madison Avenue, alla ricerca di quell’«Oxford azzurro color Agnelli» introvabile nei capi confezionati. Non sapevano che l’Avvocato si faceva fare le button-down su misura.

«Capital», mensile patinato per giovani signori, che aveva fatto dell’Agnelli’s Style un modello da imitare, individuò finalmente la marca di un orologio misterioso portato da Agnelli. Acciaio satinato, piccolo schermo nero come quello di un micro-televisore e ore luccicanti in verde marziano. Un allora sconosciuto Pulsar, reperibile solo in America, ma con difficoltà. Luca Cordero di Montezemolo, uno degli amici più cari dell’Avvocato, ne possiede ancora un esemplare. Si amavano i suoi stivaletti di camoscio, allacciati fin quasi alle ginocchia e quei mocassini coi pallini che poi fecero la fortuna di Tod’s.

Agnelli non fu mai visto a bordo di un’auto straniera. Al volante fu spesso fotografato col doppiopetto grigio di flanella pesante, by Caraceni, finito in prima pagina su tutti i giornali del mondo, e divenuto un emblema del made in Italy e dell’eleganza nazionale.

La ha fatto rilevare, da Fabio Fazio, anche il nipote Lapo, presentando il suo libro «Le regole del mio stile»: «Mio nonno ha portato il bello dell’Italia nel mondo». Ma anche in Italia, a quei cittadini che, a differenza di Agnelli, non sapevano quali tesori avesse il loro Paese. Gli italiani furono così curiosi dell’Avvocato da comprare a centinaia di migliaia la biografia scritta da Enzo Biagi, e a mettersi in casa «La ruga sulla fronte», il bel romanzo, ispirato all’Avvocato, di Eugenio Scalfari.

Lo stile Agnelli non fu mai considerato quello di un padrone. Gli italiani lo hanno sempre visto come un adorabile amico, simpatico, intelligente, molto chic, un po’ dandy, colto, elegante, di gran gusto, finanche nel cibo e nelle frequentazioni, da Kissinger a papa Giovanni Paolo II, da Ugo La Malfa a Federico Fellini. Apprezzarono perfino lo champagne prediletto, il Philipponnat millesimato, meno caro del Dom Perignon.

L’unico suo dramma, come tutti sanno, fu la noia. Ma anche la noia fa parte dello stile e della vita. La temeva, e per questo si spostava in continuazione, grazie all’elicottero («Il mio tappeto volante», diceva ridendo) e all’aereo.

Faticava a reggere le persone noiose, amava farsi raccontare tutto da chi aveva scelto di conoscere e frequentare, dava spesso giudizi urticanti ma divertenti, avvolti in una garbata ironia. Molte sue battute, e bisognerebbe farne una raccolta completa, sono ancora attuali. Di certe donne che vedeva sui rotocalchi diceva: «Sono mignette, mezze mignotte e mezze calzette». Di lui si sapeva quasi tutto. Fu «molto amato, tanto imitato ma mai eguagliato» come ha detto Benno Graziani. A lui si deve un aneddoto che fa capire il suo stile e la sua passione per la vita. «In barca, alle cinque del mattino, aspettavamo l’alba. Io mi appisolavo e lui mi diceva: svegliati, goditi il bello della vita. Avrai tempo di dormire quando sarai morto».

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