Cento facce e due vite. Adolfo Celi, l’eterno cattivo del cinema

È stato l’indimenticabile (e cinico) professor Sassaroli di Amici miei. In Sandokan ha vestito i panni coloniali dello spietato James Brooke. Ha dato il volto (e la benda sull’occhio) al malvagio Emilio Largo, l’antagonista di James Bond in Agente 007 Operazione Thunderball. Adolfo Celi ha avuto cento facce e almeno due vite. Scomparso improvvisamente nel 1986 (era nato a Messina il 27 luglio del 1922), è stato uno degli attori italiani più amati. Ma ha conosciuto il successo solo dopo i quarant’anni, tornato in Italia dal Brasile, dove aveva passato quindici anni di fila.

«Quando rientrò, nel 1964, anche nell’ambiente del cinema nessuno sapeva nulla del suo periodo brasiliano, tranne quei pochi che lo avevano raggiunto là, come Luciano Salce» racconta oggi Veronica Lazar, la sua ultima moglie, madre dei suoi due figli, attrice (ha lavorato con Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni e Dario Argento) e poi psicologa.

La Lazar, che oggi vive a Roma, si emoziona ancora raccontando dell’uomo con cui ha trascorso «molti anni bellissimi». Adolfo Celi era andato in Brasile nel 1948, dopo aver finito di girare in Argentina Emigrantes di Aldo Fabrizi. A San Paolo aveva fondato il primo teatro stabile professionale e la prima compagnia, avuto tre donne famose e diretto due film d’avanguardia: era una celebrità. Veronica la incontra nel ’65 a Roma, alla vigilia del grande successo commerciale di James Bond e dopo che aveva girato L’uomo di Rio, il film che lo aveva riportato in Europa. Lei era una giovane attrice rumena. «Saremo stati dieci rumeni in tutta Italia e fummo accolti benissimo, altro che oggi, allora questo era un Paese tollerante».

Nel giro di un anno, si trasferiscono in una villa principesca sull’Appia Antica, con quattro persone di servizio e mobili d’epoca giunti da Londra. «Quando lo conobbi, viveva in una camera ammobiliata, non era ancora famoso. Era rimasto stupito di vedere che Vittorio Gassman abitava in una villa sull’Aventino. Lo incontrai per la prima volta a una cena insieme a Gabriele Ferzetti. Mi innamorai immediatamente di quell’uomo affascinante. In Brasile, Adolfo aveva avuto storie d’amore, prima con Cacilda Becker e poi con Tônia Carrero (entrambe celebri attrici) e infine con una giovane, molto bella, Marília Branco, una storia burrascosa con un finale doloroso, che lo fece soffrire. Ebbi l’impressione che avesse voglia di sistemarsi, di avere dei figli. E io rimasi subito incinta di Alessandra. Partorii a Londra e, quando tornai, lo trovai installato sull’Appia, il nostro vicino era Peter Sellers. Penso che si fosse lasciato influenzare da Gassman».

Fin dai tempi dell’Accademia Silvio D’Amico, in effetti, Gassman fu uno degli amici più intimi dell’attore: «Con Vittorio c’era un rapporto complicato, di grande amicizia ma anche di forte competitività, litigavano però si volevano molto bene» racconta Veronica. «Adolfo era un uomo complesso, con forti tratti passionali e molto generoso. Mi fece conoscere il mondo: Venezia, Parigi, Amsterdam, Londra… Con lui tutto doveva sempre essere un’esperienza unica. Dava mance stratosferiche, ovunque andassimo era accolto come un re. Io ero sopraffatta e conquistata da questi suoi modi… Ma c’era un lato oscuro: Adolfo aveva rimosso quella parte di sé che aveva liberato negli anni brasiliani, il teatro, la ricerca. Lui in verità era un creatore, un regista, un organizzatore. Fare l’attore gli diede il successo e il denaro, ma era scelto, invece di scegliere».

Quasi cento film, tra cinema e televisione. Passava da Ermanno Olmi a Carol Reed, da Mario Monicelli del Brancaleone alle crociate a I Borgia sulla Bbc, da Luis Buñuel (Il fantasma della libertà) a La villeggiatura di Marco Leto, film poco noto al quale teneva moltissimo. Dice Veronica: «Quando lavorava, si divertiva. Era un professionista, studiava tutto e sapeva recitare in cinque lingue».

Un viaggiatore, da sempre. Figlio di un prefetto che cambiava città continuamente, Celi aveva lasciato la Sicilia da giovane. «Il rapporto con Messina era molto forte. Adolfo aveva una sorella, Flavia, mancata non molto tempo fa, alla quale era molto legato.

Nel corso della sua vita aveva ristabilito il legame con la Sicilia. In fondo» riflette Veronica «restò sempre un siciliano, direi d’altri tempi, anche con le donne. Da una parte la famiglia, dall’altra le amanti. Dopo la Villa sull’Appia ci trasferimmo in un appartamento ai Parioli e lui comprò subito anche un’altra casa, a pochi passi di distanza. Ci andava a dormire. Adolfo era così. All’inizio, ho fatto finta di niente, forse mentivo a me stessa, poi non ce l’ho più fatta. Ha avuto molte donne, ma siamo rimasti sempre vicini, sebbene negli ultimi anni vivessimo separati. Fui io a tenergli la mano prima che entrasse in sala operatoria, l’ultima notte della sua vita».

Adolfo Celi morì a Siena, la notte del debutto dei Misteri di Pietroburgo: prima di entrare in scena ebbe un attacco di cuore che non superò. «Era il giorno del diciottesimo compleanno di mio figlio Leonardo, il 19 febbraio» ricorda Veronica. «A Leonardo venne a mancare il padre nel momento più delicato, ha sofferto molto, e il documentario che ha realizzato nel 2006 (Adolfo Celi, un uomo per due culture) è finalmente l’elaborazione del lutto. Con Alessandra, invece, il rapporto era completamente risolto, per lei è stato più facile. Lui adorava portare i figli dappertutto, aveva comprato persino una roulotte. Da piccoli, lo raggiunsero da soli in Malesia sul set di Sandokan».

Solo verso la fine della sua vita l’attore si era riavvicinato al teatro, all’insegnamento, con la bottega di Gassman a Firenze, dove era stato invitato a partecipare. «C’era in lui una sorta di amarezza… Era stato a lungo “tollerante” nei confronti del cinema, poi però era diventato più critico, più esigente. E alla fine desiderava riavvicinarsi al mondo del teatro».

Il suo ultimo film da regista, L’alibi, l’aveva girato nel ’68 insieme a Vittorio Gassman e a Luciano Lucignani: una specie di amaro bilancio autobiografico, diviso tra il Brasile e l’Italia, quasi una metafora della sua vita. «Quando andò a girare le scene brasiliane del film portò anche me. Andammo a Rio e poi a Brasilia. Lui si emozionava, il Brasile era il “suo” Paese, e rimase colpito dai cambiamenti che c’erano stati nel frattempo: ne soffriva. Il ’68 fu l’anno più duro della dittatura militare… Credo che in Brasile lui avesse ritrovato la Sicilia. Ho un ricordo preciso. Quando eravamo a Copacabana, vide il cesto di frutta che l’hotel ci aveva preparato. Sa, uno di quei cesti enormi, coloratissimi. Beh, iniziò a gloriarsene come se l’avesse fatto lui».

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