Un uomo sopravvissuto a un incidente aereo e alla più incredibile decelerazione della storia della F1 non è un uomo qualunque. Per descrivere un personaggio come David Purley non basterebbe una collana enclicopedica: un coraggioso, un leone senza criniera ma col casco e l’ignifuga, un temerario che non temeva niente, che urlava nel casco per sconfiggere la paura e una sana follia sportiva che tutti gli ammiravano. L’uomo più coraggioso è sopravvissuto all’incidente più spaventoso della storia delle corse automobilistiche.
Purley era un eroe sfortunato, capace di passare dalle trincee dello Yemen alle piste di Formula 1, di rendersi protagonista del disperato tentativo di salvare un collega dalle fiamme al finire nel Guinness dei Primati per essere stato l’uomo capace di sopravvivere alla decelerazione più violenta nella storia. Sino a terminare i propri giorni schiantandosi mentre pilotava un aereo acrobatico. Una vita vissuta al limite, ma anche per questo meritevole di essere raccontata e ricordata.
La storia di Purley
David Purley nacque il 26 gennaio del 1945 a Bognor Regis, nel West Sussex; il padre Charles era proprietario della Longford Enginering Company, più nota come Lec Refrigeration: una fabbrica di frigoriferi che sarebbe divenuta un colosso del settore.
David nel 1961 si arruolò dapprima nell’esercito, dove combattè nello Yemen del Sud, e poi come paracadutista d’élite. Durante una missione fu l’unico a sopravvivere allo schianto dell’aereo su una collina.
L’amico Derek Bell gli consigliò di provare a correre e, dopo alcune disastrose esperienze a ruote coperte con Ac Cobra e Chevron, nel 1970 debuttò in F.3 con una Brabham, sponsorizzato dalla ditta di famiglia: una presenza che avrebbe rappresentato una costante nella sua carriera da pilota.
Il 31 maggio si svolse il 39° Grand Prix des Frontiéres sul circuito stradale di Chimay, in Belgio. Si trattava di un tracciato lungo sette chilometri, formato da lunghi rettilinei, curvoni veloci ed insidiosi tornanti: una versione ridotta di circuiti mitici come Spa e Nurburgring, dove un pilota doveva dimostrare di avere precisione, coraggio e velocità per riuscire a vincere. Tre edizioni di fila della gara (1970, 1971, 1972) furono conquistate da David Purley. Celebre fu una sua affermazione a proposito delle sensazioni che provava guidando su quel tracciato: “La cosa migliore è urlare sino a sfondarti i polmoni. E via… quando corro su quella pista, mi capita di urlare spesso nel casco”.
Nel Gran Premio d’Olanda del 1973, sul circuito di Zandvoort, Purley si schierò con una March avente i colori della Lec, mentre Williamson venne iscritto dalla squadra ufficiale March. Nel corso del 7° giro, Williamson finì contro le barriere ad altissima velocità, probabilmente a causa di una foratura. La monoposto si ribaltò prendendo subito fuoco e il primo a prestargli soccorso fu proprio David Purley, che fermò la sua auto tentando in tutti i modi di strapparlo alle fiamme. Prima tolse dalle mani di un incerto commissario un estintore tentando di spegnere l’incendio, poi cercò di estrarre il collega intrappolato dentro la vettura, ma il calore gli rese impossibile l’impresa. Nel frattempo, sul posto i soccorsi tardarono ad arrivare e i due commissari presenti rimasero inermi ad assistere alla scena, terrorizzati dalle fiamme, il tutto mentre la gara proseguiva come se nulla fosse successo. Un gruppo di spettatori si spinse persino a bordo pista per aiutare Purley, venendo però bloccato dall’intervento della polizia. L’eroico tentativo di Purley fu inutile: Williamson morì bruciato vivo all’interno della sua March, con le immagini della televisione che mostrarono in diretta una delle pagine più drammatiche e vergognose nella storia della Formula 1.
Ma il gesto del pilota britannico non passò inosservato: fu successivamente decorato con una medaglia al valore, la George Medal, e ricevette anche il Siffert Trophy; ma David, in realtà, voleva solo salvare la vita del proprio connazionale, “Che conoscevo appena”, come precisò in un’intervista rilasciata anni dopo alla Bbc, in cui raccontò quei terribili momenti.
La tappa successiva era prevista a Silverstone, per quella che sarebbe stata l’ultima apparizione di David Purley in Formula 1. Affrontando la velocissima curva Becketts, l’acceleratore della Lecrimase bloccato a fondo corsa, e Purley non potè evitare il devastante schianto contro le barriere. Il contagiri della sua vettura dopo l’incidente rimase fermo a 173 km/h, con uno spazio d’arresto calcolato in soli 66 centimetri. In pratica, venne stimato che il corpo di Purley subì una forza vicina ai 180 G: la decelerazione più violenta mai fatta registrare nella storia delle corse, che lo fece entrare di diritto nel Guinness dei Primati. Incredibilmente, Purley riuscì a sopravvivere, ma con un totale di 30 fratture tra gambe, bacino, costole, più trauma cranico e ben sei arresti cardiaci prima del suo trasporto in ospedale. Venne sottoposto a numerose operazioni e ad una lunga riabilitazione presso la clinica del professore belga Derweeuden, anche per ovviare al fatto che una gamba era rimasta più corta dell’altra di 5 cm.
A chi gli domandò come avesse fatto a sopravvivere, David rispose semplicemente: “A volte sei lì, la sera, d’inverno, e ti chiedi perché esisti. Rispondo da pilota e non da filosofo. Guardo le mie mani e dico: ho rischiato, ho sfiorato la morte, ma sono vivo e ne conosco il perché. Sono stato bravo, ho puntato tutto su di me e ce l’ho fatta”.
Alla fine del lungo calvario, però, Purley tornò a gareggiare, seppure per un breve periodo: ciò avvenne in Formula Aurora nel 1979, cinque mesi dopo l’ultimo intervento post-incidente, ma non con la Lec CRP1-Ford ormai obsoleta, bensì con una Shadow Ford DN9B appartenuta a Elio de Angelis, ottenendo il quarto posto a Snetterton. Le sue gambe però non erano più in grado di sopportare le continue sollecitazioni, e dopo aver ottenuto la sua ultima vittoria in una gara in salita al Loton Park Hillclimb, al volante di una Porsche 924, decise di ritirsi dalle corse.
Da quel momento, si dedicò all’azienda di famiglia, iniziando a pilotare aerei acrobatici. Una passione, però, che gli sarebbe costata cara: nel 1985, un aereo da lui pilotato precipitò sulle scogliere della sua Bognor Regis.
Ancora oggi, nel museo del circuito di Donington è esposto il rottame della sua vettura incidentata quel giorno del 1973 a Silverstone. Il museo è di proprietà di Tom Wheatcroft, ex manager di Roger Williamson, il pilota che David tentò di salvare il 21 agosto 1973 in Olanda.
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