Come era prevedibile, il match olimpico tra Angela Carini e l’atleta iper-androgina Imane Khelif ha scatenato un vespaio di polemiche e ha diviso il mondo in due tribù: quelli che considerano l’algerina una donna a tutti gli effetti e quelli che, invece, la considerano un uomo (o una “categoria intermedia”) e ritengono falsato l’incontro per mancanza di equità sportiva.
Senza entrare nel merito della questione genetico-sportiva, ci sono delle istituzioni preposte a questo tipo di valutazioni, a noi interessa analizzare l’effetto tribù, ovvero la costante divisione di noi tutti in due (o più) fazioni contrapposte che non si riconoscono a vicenda.
Una contrapposizione, spesso ideologica, che scatta ormai quasi in automatico per qualsiasi evento (politico, economico, sportivo, sociale…) e colpisce (quasi) tutti indistintamente.
Una contrapposizione talmente violenta che supera anche il concetto stesso di “nemici“. I nemici per essere tali si riconoscono valore a vicenda, si riconosco come nemici. Oggi, invece, le tribù d’opinione non ritengono le altre tribù neanche degne di esistere.
Come dire, esiste solo il mio “clan”, gli altri sono dei marziani che vivono in un altro pianeta e, quindi, non è possibile alcuna forma di dialogo o confronto. Gli esperti hanno definito la nostra l’era della polarizzazione.
Ma quando è iniziata l’era della polarizzazione?
Tutto comincia il pomeriggio del 15 settembre 2008, con il crac di Lehman Brothers e la fuga alla spicciolata dei suoi dipendenti dagli uffici con i propri scatoloni sotto braccio. Da quel momento in avanti, il futuro non sarebbe più stato lo stesso.
In breve tempo la classe media occidentale impara l’impersonale lessico dell’economia: mutui subprime, crisi del debito, agenzie di rating, rischio default, ristrutturazioni, inflazione. Insieme al suo amaro significato: disoccupazione di massa, povertà diffusa, peggioramento delle prospettive di vita, erosione progressiva dei patrimoni, aumento delle disuguaglianze.
Mentre i ricchi godono di tassazioni agevolate e paradisi fiscali, i governi possono contare su budget sempre più scarsi, che costringono a erogare servizi di welfare (sanità, educazione, pensioni, sussidi di protezione) in quantità sempre minore. A danno di poveri e classe media, che vedono regredire i propri diritti in privilegi.
«In Occidente stiamo vivendo la fine del periodo segnato dalla prosperità» avverte Raffaele Alberto Ventura. «In più, su tutti incombe l’impatto del cambiamento climatico». Autore di una trilogia sulla lenta decomposizione dei punti di riferimento della modernità (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti, minimum fax, 2017 e 2019; Radical choc, Einaudi, 2020) il filosofo taglia corto. Nessun ottimismo. «In entrambi i casi non abbiamo evidenze per sostenere che questi fenomeni scompariranno a breve».
Astensione e populismo: la politica sotto scacco
Un po’ dappertutto alla fine del benessere diffuso segue il ritiro della fiducia alle classi dirigenti. In due direzioni. Un numero crescente di elettori preferisce disertare il voto tout court. In fondo – questo è stato il pensiero prevalente – se la responsabilità delle decisioni che condizionano la vita concreta delle persone risiede in luoghi di potere diversi da quelli contendibili grazie alla competizione elettorale, a cosa serve recarsi alle urne?
Intanto, tra coloro che continuano a esercitare il proprio dovere civico, una parte consistente prova a rovesciare il banco. Spostando la propria preferenza da partiti ispirati a culture politiche classiche – popolarismo, liberalismo, socialdemocrazia – verso formazioni, almeno in teoria, anti-sistema. Costringendo i primi a rincorrere le seconde. A destra o a sinistra.
«La cifra del populismo», spiega Ventura, «sta nella vaghezza e nella disfunzionalità della costruzione di consenso: contro qualcosa. Si prova ad arrivare al potere, senza mettersi d’accordo su ciò che si intende fare. Alle strette, si può occupare il centro e prendere tempo lì in attesa di trovare una direzione. Ecco, tutto questo si è tradotto nell’incapacità di fare politica e di governare».
Al vertice, la polarizzazione trova ancora ostacoli nel trasformismo: diventata maggioritaria, ogni proposta politica radicale finisce per deludere le promesse grazie a cui ha guadagnato consenso. Eppure l’elettorato si fa mobilissimo e la domanda di soluzioni salvifiche e irrealizzabili brucia in pochi anni il ciclo di vita di leadership arrivate nella stanza dei bottoni con altrettanta sveltezza: il Movimento 5 Stelle, Renzi, Salvini, ora Meloni. Fino a quando?
Declino dell’informazione tradizionale e ascesa delle fonti “alternative”
Nel frattempo declina l’informazione. Lo scetticismo verso la figura dell’esperto raccoglie proseliti. Un numero sempre maggiore di lettori smette di acquistare quotidiani e riviste per conoscere i fatti del giorno e leggere analisi, punti di vista e approfondimenti. Nella ricerca disperata di introiti, tv, radio e giornali inseguono il meccanismo di altri media, dilapidando senza freno un capitale di autorevolezza e credibilità.
Ci si continua a informare, magari sbirciando di sfuggita il titolo clickbait di un articolo coperto da paywall durante sessioni di scrolling compulsivo. Ma sfugge il contesto dei fatti. In più, ci si aspetta dalle notizie il compito di confortare i propri pregiudizi, l’esatto contrario del significato di libertà di stampa.
Prolifera allora il successo di diete informative fai-da-te, che contribuiscono al rischio di esposizione alla post-verità. Con effetti deleteri per l’equilibrio sociale. In futuro la situazione non migliorerà. Secondo Ventura, «ci avviciniamo a ecosistemi informativi in cui grandi monopolisti coesistono insieme a piccoli servizi molto mirati e di nicchia. Un modello inadatto a risolvere il problema della disinformazione».
Internet, da sogno democratico a distopia autoritaria
Già, internet. Nell’ultimo quindicennio il web svolge un ruolo cruciale. Alcuni dei maggiori momenti di svolta passano da lì. È grazie a Twitter se Barack Obama, primo afroamericano, raggiunge la Casa Bianca. Con l’aiuto di Facebook, i popoli del Nord Africa e Medio Oriente detronizzano i loro faraoni in una breve ed effimera stagione di rinnovamento conosciuta col nome di Primavera araba. Grazie a un blog il Movimento 5 Stelle si trova tuttora in Parlamento. Senza dimenticare Occupy Wall Street e Black Lives Matter, il #MeToo e ogni minoranza o intersezione di cui si compone la quarta ondata femminista.
Alla prova dei fatti, pochi di questi movimenti raccolgono il successo che ci si aspettava nel lungo termine. Tutti, però, riescono a plasmare il proprio tempo. Intercettando una domanda di cambiamento e aggregando intorno a essa un altissimo numero di sostenitori. Si tratta di una moltitudine pre-politica desiderosa di un orizzonte di senso. A favore o contro qualcosa.
Fino alla svolta, in peggio. Nel 2016 il newsfeed di Facebook, oggi Meta, passa dal modello reticolare a quello algoritmico. Da orizzontale l’infrastruttura diventa verticale. Addio social network, benvenuti social media. Il mito delle origini cade. E l’opinione pubblica si sveglia bruscamente dal sogno, mentre sulla scena compaiono i fantasmi: la Brexit, Donald Trump alla Casa Bianca, l’alt-right, gli incel, le teorie cospirazioniste di QAnon.
«Pensavamo – mi ci includo – di poter contare su una freccia in più nella faretra del progressismo. Si è trattato di puro wishful thinking», racconta Davide Piacenza, autore di La correzione del mondo (Einaudi, 2023). «Ci siamo accorti che questi strumenti non servivano cause umanitarie. Erano asset di proprietà di aziende, con consigli d’amministrazione, azionisti e stakeholder a cui rendere conto» continua il giornalista. Disposti ad accumulare profitti sulla litigiosità. Il successo di un post o di un thread si misura in engagement, capacità di creare coinvolgimento. Come in letteratura, i buoni sentimenti non funzionano granché.
Le nuove divinità dell’algoritmo
Grazie a un’attenta profilazione dei dati, le piattaforme indirizzano l’utente sulla base di abitudini, gusti, opinioni e valori in un meccanismo a compartimenti stagni. Così in rete si arriva a muoversi dentro echo-chambers: spazi che riducono la possibilità d’incontro e confronto con esperienze diverse oppure opposte. Come una lastra di vetro rotta, il corpo sociale finisce per dividersi un’infinità di piccoli frammenti. Incapaci di combaciare. Ormai «siamo diventati incompatibili non soltanto con chi non la pensa affatto come noi, ma pure con chi ci somiglia, per quanto non a sufficienza», continua il giornalista. Il dizionario riporta un vocabolo per questa definizione: settarismo. Fuori dalla bolla, nessuna salvezza.
La novità più recente riguarda l’avvento di una nuova classe di professionisti della comunicazione: gli influencer. Figure all’incrocio tra il marketing, la divulgazione, l’intrattenimento, l’attivismo e il jet-set. Impegnate a dare al proprio segmento di pubblico, senza intermediazione né particolari obblighi di trasparenza, ciò che esso richiede: possibilità di riconoscimento.
Oltre alla fiducia, per ritagliarsi un pubblico occorre lo scontro, vero o presunto, con un nemico designato. È teoria della narrazione: perché esista un noi, deve sussistere un loro. Protagonista contro antagonista.
Il vittimismo entra a pieno titolo tra gli elementi di legittimazione del potere. Basta rileggere il monologo con cui Chiara Ferragni, sul palco del Festival di Sanremo di qualche anno fa, con l’artificio della lettera alla bambina che è stata, celebra il culto di sé: donna forte, autonoma e di successo malgrado le avversità e a dispetto gli haters, folla senza nome e senza volto con l’unico scopo di far spiccare lei, l’eroina.
Più fragili, soli e intolleranti: tutti contro tutti
Basta un pretesto per regredire a tribù. L’attualità ne mette sul piatto di continuo. Periferie contro centro. Popolo contro élite. Neri contro bianchi. Ricchi contro poveri. Giovani contro vecchi. Autoctoni contro stranieri. Destra contro sinistra. Localisti contro cosmopoliti. Tradizione contro modernità. Family Day contro Gay Pride. No vax contro immunità di gregge. Eco-scetticismo contro eco-ansia. Russia contro Ucraina. Israele contro Hamas. E viceversa. Tutti contro tutti. È la radicalizzazione dei particolarismi.
Niente si salva. «Negli Stati Uniti ci si è scontrati addirittura sull’uso di oggetti quotidiani: stufe a gas oppure automobili elettriche», puntualizza Piacenza. Lo scontro degenera di continuo. Vengono chiamate culture wars, conflitti simbolici per l’affermazione dei propri valori di riferimento. Solo per rimanere negli Usa, a ogni statua divelta per mano della campus left sull’altare del politicamente corretto perché simbolo di un passato coloniale corrisponde un libro per l’infanzia pronto a subire il ban da parte del governo conservatore di uno stato perché considerato pro-Lgbt.
Per quanto agli antipodi, i contendenti usano lo stesso strumento: la cancel culture. Con lo stesso proposito: modellare le condotte individuali attraverso l’uso del linguaggio e il revisionismo storico selettivo.
Così, a ogni azione equivale una reazione. In una spirale infinita che, oltre a rendere impossibile risalire a chi abbia cominciato per primo, disincentiva a terminare le ostilità.
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