Oggi è un imprenditore come tutti gli altri, alle prese con burocrazia e clienti che non pagano. Un imprenditore diverso da tutti gli altri per il peso del suo passato che è anche storia della malavita italiana. Lui è Felice Maniero, l’ex boss della Mala del Brenta, l’uomo che per 20 anni ha guidato una holding criminale attiva nel Nord Italia e in Emilia e specializzata in furti, rapine, sequestri, omicidi, traffico di droga e di armi.
Un impero che lui stesso, nel 1995, ha contribuito a smantellare decidendo di collaborare con le forze dell’ordine. E ha collaborato di nuovo due anni fa – stavolta da uomo libero (diventato tale nel 2010) – quando ha denunciato l’ex cognato e fatto ritrovare il suo tesoro su cui molto si è favoleggiato. A breve tornerà in tribunale, sul banco dei testimoni, proprio per parlare di quel tesoro e non sono esclusi colpi di scena.
Nel frattempo, nella pasticceria di una città segreta, accetta di raccontare il presente a Sabrina Tomè de La Stampa: il suo e quello di un pezzo di criminalità che continua a far paura.
Come preferisce essere chiamato, col nome della sua prima o della sua seconda vita, Felice Maniero o Luca Mori?
«Non uso più quei due nomi da molto tempo».
Lei ha collaborato nel 1995 con la giustizia determinando la fine della Mala, poi di nuovo nel 2016 facendo ritrovare il suo tesoro o parte di esso. Ci sono altri segreti che potrebbe rivelare? Il suo ex sodale e poi nemico Maritan sostiene che lei nasconde 11 omicidi. Sempre Maritan ha parlato di un patto tra lei e pezzi deviati dello Stato che le avrebbero consentito, in cambio del suo pentimento, di portare in Svizzera e Sudafrica i soldi. Ci sono ancora misteri da svelare oppure della leggendaria vicenda del bandito Maniero si conosce tutto?
«Non capisco cosa aspetti Maritan a dire quello che sa. Soprattutto i nomi delle vittime di questi 11 omicidi con le prove che sono stato io. Ti sfido Maritan, è ora che tu sveli tutto. Io ti ho accusato pesantemente e tu mi proteggi, non sei credibile. Guardi, Maritan era considerato da tutti noi non molto affidabile, aveva paura anche della sua ombra, non ha mai fatto rapine se non una con me rimanendo fuori, a un chilometro di distanza seduto nella sua auto. Se non avessi vietato più volte ai mestrini di ucciderlo, sarebbe morto da almeno 30 anni. Il fatto che abbia ucciso una persona in una lite, per gelosia o esaurimento nervoso non ha senso».
L’ex procuratore antimafia del Veneto Adelchi D’Ippolito si era detto preoccupato per un ritorno della Mala del Brenta: è un pericolo reale secondo lei?
«Sì, è un vero pericolo. Credo sia stato lasciato qualche “batterio”; ciò ha permesso di farli proliferare e con il tempo di rafforzarsi sempre più. Un esempio su tutti: Paggiarin, mestrino detto Paia. Dopo 24 anni resto ancora incredulo di come sia potuto uscire da tutte le imputazioni che aveva al processo Rialto, assieme a noi tutti. Ecco, io sono convinto che il Paia abbia tenuto in piedi e ben ordinati questi “batteri”, allargando sempre più la sua influenza e le sue “batteriche truppe”. Attualmente i mestrini sono quasi tutti fuori, personaggi di grande spessore. La situazione è certamente peggiorata. Secondo me è già avvenuto uno spostamento di comando su Venezia-Mestre delle operazioni illecite più importanti. Il Brenta è tornato un fiume e la nostra meravigliosa Venezia il fulcro della criminalità».
Quali sono, sempre a suo avviso, le nuove organizzazioni criminali da cui il Veneto deve ora guardarsi?
«Tutte. Se i veneti adotteranno la strategia “nessuno deve entrare”, sarebbe il male minore; la vedo molto dura perché attualmente non sono forti come dovrebbero, altrimenti sarà inimmaginabile cosa potrà accadere. Ai tempi i mestrini erano molto intimi con la ’ndrangheta tramite Pattarello e con la camorra tramite Boato e Tonino che aveva un negozietto di orologi e souvenir in via Piave a Mestre. Molto intimo con l’ispettore Papa da me accusato».
La Commissione Antimafia e lo stesso attuale procuratore Antimafia del Veneto Cherchi hanno parlato di una sottovalutazione del fenomeno dell’infiltrazione mafiosa in Veneto, cosa ne pensa?
«Hanno ragione da vendere. Attualmente tutto gira attorno agli stupefacenti, trafficare con la droga è molto facile e non si deve essere coraggiosi o intrepidi, nel senso peggiorativo del termine, non bisogna avere una particolare caratura. Chiunque potrebbe trafficare, un pelandrone che non ha voglia di lavorare o uno che vuole ricchezza immediata. O perlomeno lo crede lui. Invece, di immediato avrà tanta galera. A tutti i giovanotti che hanno l’acquolina in bocca pensando di fare i malavitosi – tanti soldi facili, “lo faccio per un paio d’anni, mi arricchisco e poi smetto” – dico: sarebbe l’errore che devasterà la vita, trascinando dentro tutti i cari che non hanno alcuna colpa».
Una legge sulla liberalizzazione darebbe fastidio ai trafficanti?
«So che non è condiviso dai più, ma una seria legge in merito alla liberazione degli stupefacenti, ben controllata, causerebbe un tracollo disastroso per tutte le mafie e un aiuto per chi la usa. Ovviamente, non avrebbe alcun senso la liberazione di stupefacenti in Paesi come l’Olanda, la Svizzera, la penisola scandinava o altre nazioni, dove non esiste la criminalità organizzata e la criminalità comune è allo 0,0 centesimi se confrontata con l’Italia che è in testa alla classifica mondiale in merito a mafie e criminalità organizzata».
A fronte della sua situazione di insicurezza familiare è pentito d’essersi pentito?
«La parola pentito la ritengo inesatta e sono convintissimo che nessuno, sottoscritto incluso, abbia iniziato a collaborare con la giustizia perché “unto” da qualcosa. È stata emanata una legge, che dà l’opportunità di avere riduzioni di pena se si collabora sinceramente e sostanzialmente con lo Stato. Credo sia stata molto preziosa nella lotta contro la criminalità. Se tornassi indietro di sicuro non rifarei il criminale. Ho capito che nella vita si possono avere gratificazioni intense con il lavoro e infinite con la famiglia, sempre vicina e in pace. Mi permetto di suggerire una cosa. Se fossi un inquirente darei la misura di sicurezza più restrittiva possibile a tutti i pregiudicati che non hanno un lavoro serio. Se non lavorano come campano? È più che ovvio. Io ne sono testimone, la misura di prevenzione mi tagliava le gambe. Riduceva il mio ambito operativo di oltre il 50%».
Nessun senso di colpa per i suoi trascorsi?
«Provo un profondo senso di colpa per Cristina Pavesi, la ragazza del treno deceduta a causa del nostro assalto. E provo senso di colpa per il traffico di droga. Mi chiedo spesso quanti giovani siano morti a causa mia. All’epoca diedi il via libera al traffico di stupefacenti perché se non lo avessimo preso in mano noi, sarebbero entrati i peggiori criminali, i mafiosi. A noi sarebbero bastate la rapine viste le enormi quantità di oro rapinato; circolavano camioncini pieni di oro e di diamanti».
Sensi di colpa per gli omicidi?
«Un po’ meno perché erano persone diventate nemiche e avrei fatto la loro stessa fine se non li avessi anticipati. Purtroppo, le nostre regole erano chiare a tutti e anche loro erano dei killer».
Tra gli omicidi più eclatanti attribuiti alla banda c’è quello dei fratelli Rizzi.
«Loro avevano ucciso Marziano, uno dei nostri, una persona buonissima che qualche giorno prima mi aveva avvertito, si sentiva minacciato diceva. Io lo rassicurai, non credevo che i Rizzi potessero fare qualcosa contro di me. E invece… Quando lo hanno ammazzato ho pianto, una delle pochissime volte in cui è successo. Anche tra banditi ci si vuole bene e io ne ho voluto tanto. A quel punto è iniziata la caccia: una caccia senza sosta, con i miei uomini che mi chiedevano almeno il permesso di tornare a casa il sabato sera per cenare con la moglie. Non diedi alcun permesso, prima dovevamo trovarli. Ci mettemmo otto mesi, mesi interi passati a setacciare gli argini e a incontrare persone di estrema fiducia che dovevano “rivoltare” Venezia per avere informazioni sui Rizzi. Dopo l’omicidio ci siamo trovati a casa mia e abbiamo festeggiato con una cena a base di pesce. Pesce di quello che non si poteva pescare, portato da Maritan».
E le rapine, invece?
«L’evasione dal carcere mi dava un’adrenalina pazzesca, sconvolgente. Solo un cretino fugge quando ha appena un anno da scontare. Ed è quello che ho fatto io. Il profumo di evasione era per me irresistibile, la droga più potente del mondo. Anche perché da un carcere di massima sicurezza non era mai riuscito a evadere nessuno. Lo stesso vale per le rapine, serve il coraggio di un leone per farle. All’ultima, in una banca di Bassano, non mi reggevo in piedi, ero fisicamente distrutto. Siamo entrati con le donne delle pulizie verso le 4 del mattino e bisognava aspettare alcune ore che arrivasse il custode con le chiavi e le combinazione delle casseforti. Mi sono messo in un angolo e ho dormito lì. Eppure poi ho preso in mano la situazione ed è stato un colpo pulito, senza violenze».
È per questo che diventa il boss?
«È per questo, perché sai prendere la situazione in mano, perché sei sempre il primo nella fila a protezione di chi sta dietro, dimostrando altruismo verso i tuoi uomini. È così che poi le persone ti ammirano e ti seguono. Ed è per questo che sono diventato io il boss. È successo dopo la rapina al Banco dei Pegni di Mestre, quando affrontai una guardia che aveva la pistola puntata su di me. Tirai fuori la mia, gliela piantai negli occhi, le dissi di mettere giù l’arma. Poteva spararmi e invece ubbidì. Da allora ho cominciato a comandare io e ho finito per prendere in mano tutto perché chi comandava precedentemente erano pappamolle. Il fatto è che il coraggio non è di molti, non è assolutamente una critica a chi non lo ha, ci mancherebbe».
Chi erano i coraggiosi della sua banda?
«Nella mia banda di oltre 300 persone, i veri coraggiosi erano pochissimi: Pandolfo, Zinato, Galletto, Batacchi, Favaretto e mestrini, loro lo erano».
Alla fine, nel ’95, la decisione di collaborare.
«Ci avevo pensato già nel ’94 quando ero in carcere a Vicenza. Venne a trovarmi un colonnello del Nucleo di Modena per cercare di recuperare i dipinti che avevamo rubato. Finito il colloquio chiesi del generale Ganzer, se poteva venire a farmi visita. Questo perché mi fidavo di lui e pensavo di collaborare. Lui però non si presentò, la motivazione era che era teste nel processo contro di me. Così iniziai a collaborare un anno dopo. Se non lo avessi fatto sarei stato assolto in Cassazione. Perché contro di me non c’erano prove decisive, sfido chiunque a trovarle. Non c’era niente di niente, alla fine quello contro di me è stato un processo politico. Ciò non vuol dire che ero innocente, anzi».
Il Veneto nel frattempo è stato scosso da uno scandalo gravissimo, quello delle tangenti del Mose. La corruzione dei “colletti bianchi” è pericolosa come lo era la vostra criminalità?
«Credo basterebbero solo 30 minuti per distruggere o abbattere ai minimi termini il fenomeno. Basterebbe un decreto legge per trattare come mafiosi tutti gli amministratori pubblici coinvolti in casi di tangenti. Perché i loro reati sono contro tutti gli italiani, che hanno dato loro fiducia. Per cui sono reati gravissimi, anche perché minano la tenuta dell’intera nazione. Quadruplicare le pene, sequestrare tutti i beni e 41bis, fare un “copia e incolla” di una legge che già funziona benissimo contro la criminalità: questa secondo me è la soluzione».
Parliamo del suo presente, nella precedente vita era a capo di una holding criminale, in quella attuale di un’impresa regolarmente registrata. Com’è stata la riconversione alla legalità?
«È stata molto dura inserirmi nel mondo lavorativo, non avevo alcuna esperienza. E per qualsiasi settore bisogna cominciare dal basso: se si vogliono vendere scarpe, faccio un esempio, prima si impara a fare le suole e solo alla fine a commercializzare il prodotto. Quando ho iniziato, io non sapevo neppure cosa fosse l’Iva, figurarsi. E ho pensato: ma questa è un’estorsione, io non pago. Poi ho mandato giù l’osso e pagato regolarmente. Ho cominciato comprando aziendine già esistenti, ma le sceglievo senza un vero criterio perché, appunto, non conoscevo quel mondo. Inevitabili i pasticci dovuti all’inesperienza. Pensavo: un tempo, con la pistola, era tutto più semplice. Però sono andato avanti perché avevo un obiettivo ben chiaro in testa: avere un lavoro e sfondare. Sto facendo tutto questo per i miei figli, perché rimanga loro qualcosa da portare avanti. A complicare le cose nella mia nuova vita vi siete messi voi giornalisti, una disgrazia termonucleare, una continua corsa per non farmi trovare».
Malgrado le difficoltà è rimasto nell’imprenditoria.
«C’è stata una seconda azienda, ora siamo pronti per una start up, abbiamo i brevetti».
Ha lavorato con diversi enti pubblici, sono buoni clienti?
«Nemmeno per sogno, non pagano e fanno fallire le aziende oneste. E io ci sono cascato».
Meglio i clienti privati?
«Bernard Arnault ha un patrimonio 64,2 miliardi di dollari, è tra i 10 uomini più ricchi del mondo. Ed è il proprietario di Fendi, dove abbiamo installato i nostri depuratori: a palazzo Fendi Roma, a Palazzo Civiltà Italiana Eur e nella sede di Milano. Ebbene, non ci stanno pagando il noleggio da oltre 1 anno e tantomeno vogliono restituire i depuratori stessi nonostante le reiterate richieste da parte nostra. Forse hanno saputo chi sono io, ma cosa vuol dire? Un contratto è un contratto, e io non sono più un criminale. Ho presentato denuncia lo scorso ottobre, sono passati oltre 3 mesi e al momento silenzio tombale».
Insomma la nuova vita è tutta in salita.
«Arnault non ci paga, la trasmissione Report, oltre ad aver messo in grave pericolo la mia famiglia, pericolo aumentato viste le ultime scarcerazioni, ci ha fatto chiudere l’azienda, il Comune di Guidonia, nonostante un’ingiunzione al pagamento da parte delle magistratura, non ci paga 90 mila euro da almeno 5 anni. Se lo Stato non paga, se il Servizio Pubblico ci “distrugge” l’attività con programmi infamanti, allora mi chiedo: cosa deve fare la famiglia Maniero?».
Cosa fa la famiglia Maniero?
«Dopo la trasmissione Report io e i miei familiari siamo stati resi riconoscibili, non avevamo più il coraggio di uscire di casa. E mia figlia non voleva saperne di andarsene, lì aveva le sue amicizie, la sua vita. Diceva disperata: io da qui non mi muovo. Non sapevo cosa fare, mi sentivo in colpa, avrei buttato una bomba atomica. Scrissi anche al Presidente Mattarella e al ministro degli Interni, temevo potesse succedere qualcosa di grave».
E avete ricominciato di nuovo?
«Per forza, abbiamo dovuto traslocare. Mia figlia è finita in analisi, io in ospedale. È stata una situazione terribile, in assoluto il peggior periodo della mia vita».
Ha parlato delle scarcerazioni, teme che gli ex della Mala finiti in carcere dopo le sue rivelazioni le facciano pagare il “tradimento”? Non è che dopo tanti anni, si sono tranquillizzati?
«Io al loro posto non mi sarei tranquillizzato. Se prima temevo, ora temo molto di più: quella non è gente che uscita dal carcere va a lavorare. E in questi ultimi tempi sono usciti i più pericolosi. Manca Pandolfo, se non è già fuori, per chiudere il cerchio».
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