Caporalato, il business dei lavoratori-schiavi nell’agricoltura italiana

Il caporalato è un fenomeno odioso che ha i colori funesti dello schiavismo e che umilia non solo i diritti dei lavoratori, ma anche la dignità degli esseri umani. Un mese fa, un imprenditore agricolo di Terracina è stato arrestato con l’accusa di aver sparato ai suoi dipendenti indiani per spronarli a produrre di più.

Una notizia che ha creato uno shock in una parte dell’opinione pubblica, anche se di fatto si tratta di una non notizia. Perché di atti violenti nei confronti dei lavoratori sfruttati, non solo nelle campagne, se ne sono registrati tantissimi in questi anni. Da Rosarno a Latina, da Cassibile a Vittoria, da Nardò a Foggia. Le principali vittime sono gli stranieri, compresi quelli che si spostano di regione in regione per trovare impiego nelle varie aree di raccolta stagionale.

Il caporalato è una piaga sulla pelle della nostra democrazia, una stanza oscura nella quale si infilano interessi illegali e spesso anche mafiosi. Un po’ di numeri ce li fornisce l’ultimo “Rapporto su agromafie e caporalato”, elaborato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. L’economia illegale in Italia frutta oltre 200 miliardi di euro, di cui 77 miliardi derivano dal lavoro irregolare. In agricolura, il caporalato e il lavoro senza contratto generano un business di 4,8 miliardi di euro.

Il caporalato è molto diffuso anche nell’edilizia e in altri settori produttivi, ma è di certo il comparto agricolo quello più colpito. I lavoratori agricoli in Italia sono circa un milione, di cui 300 mila sono stranieri. Per quel che riguarda la manodopera straniera, sempre secondo il Rapporto dell’Osservatorio della Flai, il 53% è costituito da cittadini comunitari (rumeni, polacchi, ecc.), mentre il 47% da lavoratori extracomunitari. Nel complesso, i lavoratori stranieri (regolari e irregolari) in agricoltura sono 400 mila. Il totale stimato dei braccianti italiani e stranieri soggetti a caporalato e lavoro irregolare è invece di circa 400-430 mila. Di queste sono almeno 132mila le persone che presentano gravi forme di vulnerabilità sociale e di assoggettamento grave dovuto a condizioni abitative e ambientali paraschiavistiche.

Le aree di caporalato non sono solo una questione meridionale. Sono infatti 80 in tutto il Paese e riguardano anche il nord e zone come le Langhe, la provincia di Padova, le campagne del basso bresciano e del mantovano, l’area di Bolzano, l’Amiata e la Val di Cornia in Toscana. Insomma, l’agricoltura italiana è attraversata dal caporalato. Un meccanismo schiavista che, peraltro, arreca un danno enorme all’economia legale, oltre che al nostro sistema contributivo, dal momento che le tasse indebite che lavoratori e lavoratrici sono costretti a pagare ai caporali, in termini di mancato gettito contributivo, ci costano più di 600 milioni di euro l’anno.

A ciò si aggiungano l’orrore delle violenze subite dai braccianti e dalle braccianti (compreso il ricatto sessuale nei confronti di molte lavoratrici straniere stuprate e costrette al silenzio in cambio di lavoro) e le condizioni terribili di vita dei lavoratori. Il 60% di essi infatti, soprattutto gli stranieri, non hanno accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente e le condizioni precarie di lavoro, con ritmi disumani, nel 70% dei casi determinano la comparsa di patologie muscolari e ossee non riscontrate prima dell’inserimento nel ciclo del lavoro stagionale. Spesso le condizioni bestiali e l’assenza di tutela sanitaria significano morte: come nel caso di Paola Clemente o di Abdullah Mohammed, stroncati da un malore sotto il sole cocente nelle campagne pugliesi.

Perché quando si lavora sotto i caporali, non sono ammesse soste. Si fatica per 10-12 ore al giorno, per una paga netta che arriva a circa 30-35 euro quando va bene, visto che viene decurtata dalla “tassa” da pagare ai caporali. Cinque euro al giorno per il caporale che ti ha fatto assumere, dai tre ai sette euro per il trasporto che deve avvenire necessariamente con i mezzi dei caporali. Oltre ai circa cinque euro per acqua e panino. Questo avviene soprattuto in quei casi in cui i contratti esistono, ma la gestione dell’intermediazione viene ugualmente affidata dalle aziende (solo formalmente in regola) ai caporali, sempre più potenti.

Nei casi di sommerso puro, invece, la paga media è di circa 20-30 euro per 8-12 ore di lavoro. Spesso si lavora a cottimo, con un compenso di circa 3 o 4 euro per ogni cassone riempito (da circa 375 kg). Le lavoratrici prendono il 20% in meno rispetto ai colleghi maschi. Ovviamente, per nessuno esistono diritti e tutele di alcun tipo, come ferie, malattia, e così via. Addirittura, in aree come Cassibile (dove i contratti sono aumentati negli anni ma spesso hanno un puro valore formale), accade che il lavoratore che si ammala per più di tre giorni venga licenziato, ma senza alcuna comunicazione agli uffici di competenza. Si tiene in essere il contratto e si sostituisce il soggetto con un altro somigliante e naturalmente in nero.

In questo scenario infernale, il potere di ricatto di padroni e caporali nei confronti soprattutto degli stranieri è enorme e richiederebbe un’azione costante, capillare e coraggiosa dei sindacati, che non in tutte le aree viene compiuta.

A livello normativo, se è vero che la legge 199/2016 ha avuto una generale efficacia sul piano repressivo, fornendo ai magistrati maggiori strumenti (inasprimento delle pene per i caporali, introduzione della responsabilità penale per le imprese), è però sul piano della prevenzione e dei controlli che la norma risulta molto carente. Lo dimostrano anche i numeri dell’Osservatorio Placido Rizzotto che, nonostante registrino un aumento delle segnalazioni da parte degli ispettorati del lavoro, mostrano contestualmente come il numero di aziende sottoposte a controllo dagli stessi ispettorati sia però diminuito del 10%.

Come abbattere, dunque, questo terribile sistema schiavista? Innanzitutto inasprendo i controlli e le sanzioni, quindi reintroducendo ad esempio la protezione umanitaria, abolita dai decreti sicurezza, dal momento che senza di essa molti cittadini stranieri regolari si trasformerebbero in irregolari. Un aspetto che danneggerebbe anche alcune importanti iniziative di contrasto al caporalato, come quella del progetto dell’associazione No Cap: un progetto che ha l’obiettivo di creare una filiera etica e che, a Trani, si è tradotto nell’accordo con il gruppo Megamark, che gestisce oltre 500 supermercati.

In poche parole, i prodotti delle aziende di produzione e di trasformazione, le quali dovranno rispettare contratti collettivi e paghe e garantire condizioni legali di sicurezza e salute dei lavoratori, riceveranno il bollino etico “NOCAP” e il marchio di qualità etico “IAMME”. Gli ispettori dell’associazione No Cap vigileranno sul rispetto dei diritti dei lavoratori, garantendo ad essi (compresi gli stranieri, che dovranno essere in regola) anche alloggi dignitosi, mentre i prodotti con questo bollino verranno distribuiti nei supermercati a insegna A&O, Dok, Famila, Iperfamila e Sole365 del Mezzogiorno.

L’iniziativa, partita un paio di mesi fa in Puglia, sta procedendo e oggi si è diffusa anche in Sicilia e presto toccherà anche altre regioni. Non è la soluzione definitiva al problema, ma di sicuro un importante passo avanti, un esempio di come si possa produrre e fare profitto legalmente, senza sfruttamento e senza violare i diritti di migliaia di persone.

Informazioni su Massimiliano Perna 14 Articoli
Massimiliano Perna è autore e giornalista freelance. Siracusano, risiede in Sicilia dopo aver vissuto per molti anni a Milano, si occupa di diritti umani, temi sociali, legalità e ambiente. Ha pubblicato inchieste con diverse testate, tra cui Repubblica, Avvenire, l’Unità, Micromega.net, Liberainformazione, Terre di Mezzo, Altreconomia, L’Isola Possibile, Left, I Siciliani. Ha collaborato con RadioRai1 e Radio Popolare e, per una puntata, ha collaborato con la trasmissione di LA7, Propaganda Live. A febbraio 2019 ha ricevuto una menzione speciale al Premio Nazionale “Giuseppe Fava” Giovani. Ha all'attivo numerose pubblicazioni, tra saggi e antologie, e dirige il sito web di approfondimento e dibattito, www.ilmegafono.org, che ha fondato nel 2006. "57 Quarto Oggiaro" è il suo primo documentario.

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