Glamour, fuoriclasse e marketing. La favola dei Cosmos, che hanno inventato il calcio spettacolo

Quarant’anni fa il futuro del calcio in America si chiamava New York Cosmos. Molto Dream Team. Ma allora nessuno lo sapeva. E in quel futuro arrivarono Pelè e Giorgio Chinaglia, centravanti della Lazio, che in Italia non poteva più restare.

I Cosmos ci sono ancora. Giocano nella Nasl (North american Soccer League), divisione minore del calcio americano. Ma tutto è cambiato, la magia non c’è più. Campo lontano, a due ore da New York. Periferia, scomodità, nessun fascino.

I Cosmos erano quelli di Pelé, Beckenbauer, Carlos Alberto. La squadra dei divi, delle celebrità, degli artisti del pallone. Cool, alla moda. Nei favolosi anni 70. Ma anche the best of worst, il meglio del peggio. Mercenari consumati, anche se Kaiser Franz, l’anno prima di arrivare, nel 1976, aveva vinto il Pallone d’Oro. Il nome della squadra per intero era Cosmopolitan, in opposizione a Metropolitan, molto prima che il termine si imponesse come il drink preferito di “Sex and the City”. Anche perché in squadra c’erano varie nazionalità e quattro interpreti.

Anche oggi i Cosmos lo sono per davvero, tanti Arango, Orozco, Nicoya, Diosa, Varela e tante nazionalità: Uruguay, Brasile, Costa Rica, Kenya, Zimbabwe, Colombia, Bolivia, Spagna, Scozia, Italia (con Andrea, il figlio di Mancini). Un’America di immigrati.

I Cosmos se li inventarono dal nulla Jack WarnerSteve Ross, rispettivamente fondatore e Presidente della Warner Communications Inc, (fatturato annuo da $720 milioni) che faceva informazione, cinema, musica, anche il fumetto Superman. Con altri soci decisero di investire sul calcio.

Ma il Cosmos Country non decollava, dai 50 ai 300 spettatori a partita, e il portiere Shep Messing, che non sapeva come campare, posò nudo su una rivista, in cambio di 5 mila dollari. Warner capì che per costruire un regno devi avere un re e mandò in Brasile il suo avvocato Norman Samnick, che stava mettendo sotto contratto Dustin Hoffman per “Tutti gli uomini del Presidente”. A comprare Pelé, per quasi cinque milioni di dollari.

Non bastò, dovette intervenire l’allora segretario di stato Henry Kissinger, perché Pelé non poteva tradire il suo Paese a meno che il governo non fosse d’accordo. Pelé cambio tutto, ebbe un contratto da “performing artist“, portò spettatori, curiosità, fama e soprattutto glamour mentre la stampa reazionaria sosteneva che il calcio era straniero, non aveva nulla a che fare con l’America. C’era il baseball, non serviva altro. Peccato che il suo dio, Hank Aaron guadagnasse appena 200 mila dollari l’anno. I Cosmos invece avevano il charter, viaggiavano in prima classe, all’allenamento andavano in limousine e allo Studio 54 avevano sempre un tavolo prenotato.

E poi arrivò Giorgione, con la moglie americana, Connie Eruzione, che veniva fischiato, applaudito, amato, odiato. The Villain, lo chiamavano. Il Cattivo. Giorgione fumava sigari, beveva whisky, mandava a quel paese, licenziava allenatori (se non lo facevano giocare). Però segnava e trascinava, come nessun altro. Dopo quarant’anni il record è ancora suo: 193 gol in 213 partite. Più quattro titoli vinti. Un giorno al Giant Stadium, nei play-off, ne buttò dentro sette di gol davanti a 40 mila spettatori. Giorgione però era geloso di Pelé. Non voleva gli passassero la palla Diceva: datela a me, lui è un ex. Erano tutte star, il capitano Werner Roth, fece il suo ruolo anche in “Fuga per la Vittoria“, ma nella squadra dei nazisti.

Hubert Birkenmeier, tedesco, era il portiere, arrivò nel ’77. «Non volevo trasferirmi, ma se nello spogliatoio hai Pelé e Chinaglia non è che ci devi stare molto a pensare. In più non parlavo inglese, ma Beckenbauer mi faceva da interprete. Chinaglia aveva un fiuto per il gol bestiale, ma poteva contare su Vladislav Bogicevic, “The Maestro”, che lo lanciava nelle sue sgroppate. Di lui dicevano che poteva sbottonarti la camicia con il suo piede sinistro». Birkenmeier ha un negozio sportivo ad Hackensack nel New Jersey, dice che oggi i Cosmos gli fanno pena. «Li seguo sempre, ma andare all’Hofstra, in uno stadio universitario, in periferia non fa per me. Noi eravamo il meglio e così venivamo trattati. Nei nostri spogliatoi c’erano Mick Jagger, che venne allontanato perchè sembrava un drogato, e Robert Redford. Questi Cosmos possono anche rivincere, ma fino a quando non saranno nell’Msl, la lega più importante, nessuno si accorgerà di loro».

Il coach dei Cosmos è Giovanni Savarese , venezuelano, arrivato nel 2000 al Perugia di Gaucci e finito nella Viterbese allenata da Carolina Morace. «Se una donna è capace di partorire può fare tutto, non vedo perché non possa stare in panchina. Inutile fare confronti tra noi e l’Italia. Restiamo i Cosmos, una squadra di New York, quindi diversa e aperta a tutti. Patiamo la mancanza di uno stadio centrale e non siamo abituati a giocare con la pressione che c’è da voi, dove si viene promossi e si retrocede, dove si gioca per la vita, cosa che qui non succede».

Franco Spicciarello che sta scrivendo un libro sui Cosmos (“Nascita e morte di un sogno americano“) dice che la loro forza e debolezza fu cercare di spettacolizzare e modernizzare il calcio. Tipo il Soccer Bowl. «Introdussero il nome sulla maglia, cosa che la Fifa copiò 20 anni dopo, lo star-system, gli shoot-out in caso di pareggio, il fuorigioco avanzato, chiesero porte più grandi. Capirono che il calcio aveva un problema, ma non trovarono la soluzione. I Cosmos attuali non trascinano, soprattutto la Nasl non si sa che fine farà».

Quarant’anni dopo si scopre che i Cosmos non erano un relitto del passato, ma una navicella spaziale che viaggiava verso il futuro.

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