Le elezioni del Congresso USA decideranno il futuro di Trump e del populismo globale?

Il 6 novembre gli elettori americani si recheranno alle urne per eleggere un nuovo Congresso. Le elezioni di medio termine (il nome deriva dal fatto che si svolgono a metà del quadriennio presidenziale) non sono cosa da poco. Il Congresso degli Stati Uniti potrebbe non avere il potere di far cadere un Presidente con un voto di sfiducia, come accade nei sistemi parlamentari, tuttavia esercita poteri significativi che possono limitare gravemente la capacità di un Presidente di portare avanti la sua agenda politica.

Inoltre, danno un’indicazione dello stato d’animo politico del Paese ed evidenziano almeno alcune delle questioni di cui si dibatterà durante il prossimo concorso presidenziale. Il fatto che il Congresso cambi composizione e verosimilmente maggioranze durante un mandato presidenziale attesta la meticolosità con cui i Padri fondatori hanno voluto garantire che il potere politico in America sia equilibrato e sottoposto a controlli.

Gli autori della Costituzione statunitense non solo si sono preoccupati dei potenziali squilibri tra potere legislativo ed esecutivo, ma anche del rischio che le contingenze dei cicli politici potessero concentrare troppo potere nelle mani dello stesso partito. Questa è la logica del contorto sistema secondo cui tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti – la camera bassa del Congresso, che rappresenta la popolazione statunitense – e un terzo dei 100 seggi del Senato – la camera alta, che rappresenta gli Stati – devono essere eletti ogni due anni.

Non è quindi raro, in realtà, finora è stata la regola piuttosto che l’eccezione, che un Presidente degli Stati Uniti debba confrontarsi con almeno una delle due Camere del Congresso controllata dal partito avversario. Tutti i Presidenti repubblicani tra il 1960 e il 1994, ad esempio, furono costretti a raggiungere accordi con una Camera controllata ininterrottamente dai Democratici. E i presidenti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, per una parte, spesso la maggior parte, del loro mandato presidenziale, si trovarono tutti di fronte ad almeno una Camera controllata dal partito avversario. Progettato deliberatamente per incoraggiare il compromesso, questo sistema ha effettivamente favorito una onorevole tradizione di bipartitismo nella politica statunitense, anche se non sono mancati periodi di aspre lotte tra fazioni.

Quale destino per Trump?

Non c’è dubbio che, oggi, gli Stati Uniti stiano attraversando uno di questi periodi. Il bipartitismo si è attenuato e la polarizzazione è diventata più acuta. La cultura del fazionalismo ha trionfato durante la presidenza di Obama: le vittorie repubblicane, prima in Parlamento (nel 2010) e poi al Senato (nel 2014), hanno bloccato l’agenda legislativa del Presidente. Poiché i Repubblicani hanno goduto di una maggioranza in entrambe le Camere del Congresso dalla sua inaugurazione nel 2017, finora a Donald Trump è stato risparmiato questo destino. I sondaggi, tuttavia, indicano che i Democratici stanno riconquistando il controllo della Camera – (anche se non il Senato) dove la mappa elettorale, cioè i seggi in palio quest’anno, favorisce in modo sproporzionato i Repubblicani che devono difendere solo otto seggi, contro i ventitré dei Democratici. Qualora i dati corrispondessero effettivamente a ciò che succederà, le conseguenze per il Presidente Trump potrebbero essere significative. Teoricamente, ci sarebbe un certo margine limitato per compromessi tra il presidente Trump e i Democratici, ad esempio sugli investimenti nelle infrastrutture e la regolarizzazione dei cosiddettidreamers (sognatori), vale a dire i migranti irregolari che sono entrati negli Stati Uniti quando erano ancora minori, alcuni addirittura neonati. Considerato lo stile abrasivo di Trump e l’inesistente sostegno di cui gode da parte della base democratica, però, è più probabile che una Casa a controllo democratico cercherà lo scontro piuttosto che il compromesso.

Repubblicani e la campagna elettorale

L’interrogativo principale riguarda la linea di condotta che i Democratici adotteranno in merito ai rapporti secondo cui l’entourage di Trump ha avuto contatti impropri con agenti russi prima e dopo le elezioni. Finora il problema non ha avuto un posto di rilievo nella campagna elettorale, ma, se Robert Mueller, il consulente speciale che sta indagando sulla questione, dovesse consegnare un rapporto indicante una qualche forma di comportamento inappropriato da parte del Presidente o dei suoi collaboratori e, soprattutto, qualora le prove evidenziassero un’ostruzione della giustizia, la pressione per un qualche tipo di azione aumenterebbe.

L’ostruzione della giustizia, vale la pena di ricordarlo, è l’accusa che ha spinto il Presidente Richard Nixon a dimettersi nel 1974. C’è tuttavia una differenza fondamentale tra allora e oggi. Lo scontro era tra Nixon un fronte bipartisan, poiché alcuni Repubblicani erano disposti ad abbandonare il Presidente al suo destino, mentre oggi non esiste nulla del genere. Una maggioranza in Aula sarebbe sufficiente ai Democratici per accusare Trump, tuttavia l’effettiva destituzione dovrebbe essere votata da due terzi del Senato. I Democratici sono lontani anni luce da quella soglia e nessun senatore repubblicano ha finora mostrato alcun segno di voler sostenere un processo che la base di Trump considererebbe come un colpo di stato.

Lo scenario in politica estera in caso di vittoria dei Democratici

In ogni caso, una maggioranza democratica complicherebbe decisamente l’agenda legislativa di Trump. Come detto, i Repubblicani, dopo avere ottenuto il controllo della Camera nel 2010, hanno adottato una strategia ostruzionista aggressiva contro Obama e i Democratici non avrebbero motivo di rendere la vita di Trump più facile con l’incombente elezione presidenziale del 2020. In breve, è probabile che un Congresso diviso produca pochissima legislazione di sostanza.

È più difficile prevedere quale sarebbe l’effetto di una vittoria democratica in Parlamento sulla politica estera degli Stati Uniti. Sebbene la Costituzione offra al Presidente un grande margine di manovra negli affari internazionali, il Congresso non è del tutto impotente. Anche se finissero per controllare solo il Parlamento, i Democratici sarebbero comunque in grado di complicare i piani di politica estera di Trump attraverso audizioni, indagini, risoluzioni e poteri di bilancio. Un ambito da considerare è il travagliato rapporto di Trump con gli alleati statunitensi. Gli europei in particolare si aspettano che i Democratici siano più cooperativi per quanto riguarda la NATO, le tariffe sulle importazioni dall’Europa e l’uso di sanzioni secondarie contro le banche e le imprese dell’UE che fanno affari con i Paesi bersaglio degli Stati Uniti, in particolare l’Iran (ma anche la Russia). I Repubblicani potrebbero unirsi ai Democratici per proteggere l’impegno dell’America nella NATO dall’ostilità di Trump verso un’alleanza che considera superata. É incerto, tuttavia, quale cambiamento potrebbe portare una Casa a controllo democratico sulle tariffe e sulle sanzioni, dato che l’amministrazione conserva il potere di aumentare le prime e di implementare le seconde. Detto questo, una forte opposizione da parte del Presidente della Camera dei deputati e dei Presidenti delle commissioni parlamentari coinvolte in questioni di politica estera aumenterebbe i costi politici di un approccio aggressivo nei confronti dell’Europa.

Se questo possa fermare Trump è incerto. Data la sua propensione per il conflitto, il Presidente potrebbe calcolare che raddoppiare sia la sua migliore opzione. Gli alleati europei dell’America (come chiunque altro, americani compresi) dovrebbero prepararsi a due anni di fuoco, il preludio alla madre di tutte le battaglie: la sfida alla rielezione di Trump nel 2020.

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