L’odio corre sui social e sul web e non risparmia nessuno. Un tema questo ormai divenuto centrale al punto da entrare pienamente nel dibattito pubblico, anche per via dell’uso spregiudicato che certi esponenti politici, sia a livello nazionale che locale, fanno di tali strumenti. Insulti, parole diffamanti, istigazione alla violenza o all’odio razziale, cyberbullismo, antisemitismo: il web e in particolar modo i social network hanno sdoganato gli istinti peggiori dei cittadini, annullando il confronto civile e provocando danni gravi alla dignità delle persone.
Ciò che aggrava la situazione è il fatto che molti di questi reati commessi online spesso rimangono impuniti per tutta una serie di fattori. Proprio in queste ore è stato firmato un decreto ministeriale per la realizzazione di un gruppo di lavoro sull’odio online. Ma sul tema, nei mesi scorsi, sono state diverse le proposte in merito a possibili soluzioni, alcune presentate anche da parlamentari.
Un esempio? La proposta di rendere obbligatoria la registrazione ai social con un documento d’identità o un codice fiscale. Una soluzione che non avrebbe alcuna efficacia e che potrebbe anche produrre dei rischi per la privacy di tutti, oltre ad avere una connotazione censoria molto forte. Ne è convinta Marisa Marraffino, avvocata esperta di reati informatici e cyberbullismo, che abbiamo intervistato per Outsider News.
Cosa ne pensa dell’idea di chiedere la registrazione sui social con carta d’identità o codice fiscale?
Secondo me non ha senso. Per diversi motivi. Innanzitutto va compreso che chiedere i documenti a tutti gli utenti per iscriversi a un social network è contrario al funzionamento stesso della rete. Inoltre, cosa ancora più importante, lo scambio di documenti personali in rete, anche con soggetti autorizzati, comporta un rischio molto elevato. Ho in studio molti casi di persone che si sono viste recapitare dei decreti ingiuntivi perché qualcuno aveva clonato online le loro carte di identità e le aveva usate per attivare dei finanziamenti a loro nome. In Europa abbiamo il GDPR per trattare i dati personali degli utenti, ma i social hanno spesso sede fuori dall’Europa, in paesi che non hanno lo stesso livello di protezione. Facciamo tanto per chiedere che i server siano in Italia quando si tratta di dati personali, così da evitare la violazione di dati (data breach) o gli accessi non autorizzati, e poi proponiamo di mandare addirittura un documento a server che si trovano fuori dalla legislazione italiana? Non ha senso. C’è, infine, una questione di efficacia, che rende inutile la registrazione online ai fini del perseguimento dei responsabili di reati d’odio. Quando tu svolgi attività online, lasci sempre una traccia. Ci sono gli indirizzi IP che possono essere rintracciati.
Il problema è che oggi è possibile mascherare l’IP, attraverso le reti VPN o i proxy, ad esempio. Ci sono tanti modi per rendere dinamico o invisibile il tuo IP. Quindi, che tu abbia dato la carta d’identità o no, non cambia nulla, perché non ti becco lo stesso.
Come si può risolvere allora la questione e combattere efficacemente l’uso diffamatorio e violento dei social?
Quello che manca, a mio parere, è un sistema che faccia collaborare fra loro questi social. Per esempio, i social network spesso non rimuovono pubblicità sessiste, perché ci dicono che non violano gli standard della comunità. Stessa cosa con i discorsi d’odio. Chi giudica? Cioè Facebook, per citarne uno, giudica se stesso. Ed è il segno di qualcosa che non funziona. Da tanto tempo sostengo la necessità di creare un sistema internazionale, un ente terzo che possa decidere. In tal modo, se una persona segnala un discorso d’odio, l’ente terzo decide in tempi ragionevoli (48 ore al massimo) se quel contenuto è da rimuovere o no, obbligando nel caso il social network ad adeguarsi. Tutti dicono che non ci sono risorse, che sono troppe le persone sui social per poterle gestire. Ma allora i social dovrebbero quantomeno collaborare.
In che modo?
Tante volte, davanti a casi di diffamazione, ci siamo sentiti dire da Facebook che non ci dà l’indirizzo IP del soggetto segnalato, perché negli USA la diffamazione non è reato. Tante volte ci ha negato i dati dell’utente perché il contenuto non viola gli standard. Questo accade perché non esiste una legislazione internazionale che obblighi i provider a collaborare nei casi in cui il fatto costituisca reato nel paese del richiedente.
Non è un caso dunque che chi diffonde fake news o linguaggio d’odio, anche per conto di personaggi politici, spesso lo fa con account che si appoggiano a Paesi stranieri…
Come detto, mascherare e schermare gli indirizzi Ip è una cosa molto semplice, ormai anche molti ragazzini sanno come si fa e ce ne accorgiamo quando andiamo a fare incontri nelle scuole. Abbiamo utenti che rimbalzano in continuazione, con Ip dinamici che si collegano una volta dall’Australia, un’altra volta da un altro Paese, ecc. Poi se fai indagini più approfondite prima o poi magari lo becchi, ma non è facile, anche perché, considerando il numero di diffamazioni che ci sono e di reati più seri che si commettono in Italia, è difficile che un pubblico ministero si metta lì a spendere troppo tempo per un reato informatico.
Cosa potrebbe e dovrebbe fare il governo?
Insieme a dei colleghi avevamo già fatto un lavoro qualche anno fa, per un progetto di legge sul revenge porn. In quel caso, come anche per il linguaggio d’odio, resta il fatto che la soluzione non è nazionale. Lo chiedono gli stessi provider ed è una richiesta legittima. Si accusano frequentemente i social network, ma nell’ambito delle leggi disponibili loro fanno il possibile. In assenza di autorità indipendenti, sono chiamati a giudicare se stessi, ed è normale che con se stessi siano clementi. Poi, va sottolineato che rispetto al passato, dove erano gli algortimi ad agire, ora sia Google che Facebook hanno potenziato il controllo umano. Però capita ugualmente e molto spesso di segnalare falsi profili o identità violate e di sentirti rispondere che non violano gli standard. Ecco perché ci vuole un’autorità che ti imponga di rimuovere il profilo fake. In parte, il Garante della Privacy lo fa per quel che riguarda l’uso di dati personali, ma ci sono altri reati come la diffamazione, l’incitazione all’odio, per i quali non esiste un’autorità terza che possa imporre ai provider di rimuovere i contenuti.
Per quel che riguarda la punibilità, quali sono le leve che si possono azionare oggi?
In Italia esiste la legge Mancino che addirittura prevede una aggravante specifica per il reato di diffamazione se a ciò si aggiunge l’istigazione all’odio. La pena arriva fino a 4 anni e mezzo di reclusione. Le pene, pertanto, ci sono e sono anche abbastanza alte. Il problema è la difficoltà a identificare il responsabile. Da legale io posso chiedere il sequestro preventivo, cioè posso chiedere che venga cancellato quel contenuto. Ma ciò avviene solo se il responsabile è individuato, perchè se invece agisce con un nickname e il social network rifiuta di darmi i dati della persona, perché nel suo paese non è reato, la cosa cambia. Ecco perchè insisto nel dire che ci vuole anche una legislazione internazionale armonica. Come avviene con le convenzioni, che pongono dei principi giuridici comuni a tutti i paesi civili. I discorsi d’odio, le diffamazioni rappresentano qualcosa di inaccettabile per tutti, soprattutto in un periodo in cui l’istigazione alla violenza, all’odio razziale dovrebbero essere stigmatizzati globalmente. Dovremmo fare come quando abbiamo creato la convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che poi ciascun paese ha ratificato. Non è impossibile armonizzare una legislazione su principi riconosciuti.
Si può agire anche contro un soggetto che fa un post non apertamente d’odio, sotto il quale si scatenano gli insulti?
La persona che si sente offesa o minacciata, quando fa una richiesta di rimozione del contenuto, mette a conoscenza il titolare della bacheca avvisandolo del commento diffamatorio presente sul suo profilo. Se lui a quel punto non lo rimuove, tu puoi agire sia civilmente che penalmente anche nei confronti del titolare della bacheca. Tante volte noi consigliamo alle persone e ai blog di controllare quello che avviene sulla propria bacheca e sui rischi che corrono.
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