Sistema Israele: come un piccolo stato sotto assedio permanente è diventato una potenza tecnologica

Il dramma di Israele è anche la sua forza. L’essere costantemente sotto assedio, circondata da paesi che vogliono distruggerlo, ha trasformato un piccolo stato in una potenza tecnologica globale.


Il banchiere ebreo-tedesco Siegmund Warburg, durante la Guerra dei sei giorni del 1967, paragonò Israele alla Prussia del XVIII secolo. Warburg rimase colpito dal Weizmann Institute a Rehovot, il centro di ricerca fondato dal famoso chimico israeliano che diverrà primo presidente dello stato. Nell’anfiteatro di Rehovot, Warburg si soffermò su una citazione incisa su tavole di pietra: “La scienza porterà in questa terra sia la pace sia il rinnovamento, creando qui le sorgenti di una nuova vita materiale e spirituale”.

La pace Israele ancora non l’ha trovata, ma il suo rinnovamento è senza precedenti fra le democrazie occidentali. Come ha detto l’oracolo del capitalismo americano Warren Buffett quando ha investito cinque miliardi di dollari in Israele, “non è importante se un missile distruggerà uno stabilimento, perché lo si ricostruisce: ciò che è importante è il talento dei lavoratori”. Il piccolo Israele è il più talentuoso dei paesi occidentali.

Il paese è stato nominato il terzo più innovativo al mondo dal World Economic Forum. Israele raccoglie venture capital pro capite a un ritmo trenta volte superiore all’Europa. Israele è da poco diventato il terzo paese al mondo per numero di start-up sull’intelligenza artificiale, secondo solo a Stati Uniti e Cina, mentre Tel Aviv è il terzo maggiore hubdopo San Francisco e Londra. Israele ha il più grande giacimento al mondo, ma non di petrolio, quanto di cervelli e idee. Al Global Innovation Awards di Pechino, due start-up israeliane sono arrivate prima e seconda. Alvaro Pereira, capo economista dell’Ocse, ha detto che “negli ultimi quindici anni l’economia israeliana è cresciuta più rapidamente e in modo più coerente di quasi ogni altro paese”. Non sono soltanto ricette economiche, è un modello culturale e di società.

Sembra che Israele abbia da insegnare molto ai paesi europei: Israele, il paese che detiene l’uno per cento della popolazione e il due per cento della terra di tutto il medio oriente, ma che tutti sognano di voler cancellare dalla mappa? Israele, condannato all’Onu ventuno volte di più del gulag nordcoreano? Il paese dei checkpoint, delle maschere antigas, delle batterie antimissile, dei rifugi, degli accoltellamenti, delle Intifade in cui c’erano più candidati al martirio che giubbetti esplosivi, dei confini chiusi, delle siringhe di atropina in caso di guerra chimica, dei riservisti e della leva obbligatoria?

In Israele siamo isolati, non abbiamo niente, né il petrolio né le risorse, così dobbiamo darci da fare”, dice al Foglio Ben Dror Yemini, columnist del principale quotidiano ebraico, Yedioth Ahronoth. “Appena hanno messo piede in questa terra, gli ebrei dovevano concentrarsi sulla costruzione di un paese. Ci siamo concentrati sulla desalinizzazione, l’energia solare e altro. Non avevamo opzioni. E questo è parte dell’ottimismo israeliano. Molti europei stanno andando bene, ma qui a Parigi dove mi trovo vedo molta depressione, non solo per i gilet gialli, gli europei non sorridono quasi mai. Noi israeliani oggi siamo leader mondiali in molti campi. E’ questo che noi non abbiamo, l’autoflagellazione. E anche gli arabi in Israele con cui puoi parlare non ti diranno di apartheid e sionismo, ma di quanto si trovano bene. Mia nonna è arrivata cento anni fa dal più primitivo dei paesi arabi, lo Yemen, non avevano niente. A Gaza oggi hanno i soldi, molti soldi, ma li impiegano nei tunnel. Paragona quanto investono nella vita delle persone e nell’industria della morte che è il terrorismo. Nessuno impedisce loro di leggere, informarsi, studiare, ma pensano solo alla vendetta e alla morte. In Israele abbiamo creato dal niente qualcosa che non ha uguali o precedenti al mondo. Per questo sorridiamo”.

Israele stato dei paradossi. “Siamo il paese che più ha contribuito all’umanità e il paese più odiato da quella stessa umanità”, continua con il Foglio Ben Dror Yemini. “Israele è uno dei leader mondiali nello sviluppo di farmaci, sistemi di irrigazione (il primo al mondo nel trattamento delle acque reflue), nei brevetti (primo al mondo per quelli medici) e nelle pubblicazioni scientifiche (secondo al mondo nelle tre riviste più importanti). Non esiste un indice di ‘contributo pro capite all’umanità’. Ma se esistesse, Israele sarebbe al primo posto”. 

Milioni di persone devono la vita ai sistemi di irrigazione e ai prodotti agricoli provenienti da Israele. “Non solo il Terzo mondo”, continua conversando con il Foglio il giornalista Ben Dror Yemini. “Israele è lontano dall’essere perfetto. Ma nonostante tutti i problemi, è un miracolo. Uno stato fondato da settanta comunità della diaspora, la maggior parte delle quali non sapeva nulla della democrazia. Uno stato di poveri rifugiati diventato una potenza mondiale nell’agricoltura e nell’irrigazione e nella depurazione delle acque e negli sviluppi dell’alta tecnologia. Uno stato che non vive della spada, ma della ricerca, dello sviluppo e dell’imprenditorialità. Uno stato in cui i discorsi sul boicottaggio e la sospensione degli investimenti nascondono il fatto che è il paese dove si investe di più al mondo”.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, tornato da poco al governo del paese, oltre dieci anni fa disse che Israele sarebbe entrato nel club dei quindici paesi più ricchi del mondo. Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico, in un rapporto pubblicato pochi mesi fa, Israele ora è il numero ventuno e potrebbe raggiungere l’obiettivo prefissato da Netanyahu nei prossimi quarant’anni. Scorgere così lontano nel futuro è un’attività rischiosa, specie per un paese minacciato di distruzione come Israele, ma l’Ocse non prevede gli eventi. Si concentra sulle tendenze a lungo termine, in particolare quelle demografiche. Già, la demografia.

A Netanya, sulla costa israeliana, c’è appena stata la fiera “Baby Land”. In tre giorni, 50 mila persone hanno percorso il centro congressi con i passeggini da tre bambini. Religiosi e laici, arabi ed ebrei, tutti in missione: comprare pannolini scontati, latte in polvere, lenzuola.

Israele ha il più alto tasso di crescita della popolazione nel mondo ricco e sviluppato. Le famiglie israeliane hanno 3,1 bambini rispetto a 1,7 in altri paesi sviluppati e 1,3 in Italia. A questo ritmo la popolazione di Israele, oggi di quasi nove milioni di abitanti, salirà a 15 milioni nel 2048, senza contare l’immigrazione. Sarà grande come un medio paese europeo, mentre l’Europa sta perdendo popolazione. Anche tra gli ebrei laici, tre bambini sono la norma. Le famiglie con uno o due figli sono guardate con curiosità. Elly Teman, antropologa medica e docente al Ruppin College, dice che “in Israele l’intera base della società è familiare”. L’atteggiamento israeliano verso i bambini contamina anche gli immigrati, dice Teman. E fa l’esempio dell’ondata di immigrati arrivati dall’ex Unione Sovietica. Arrivarono con un solo figlio, plasmati dal declino demografico russo. Oggi mediamente ne hanno tre.

Alcuni esperti israeliani ora paventano la minaccia opposta a quella dell’occidente colpito dalla birth dearth, la carestia delle nascite: Israele rischia l’esplosione demografica. All’Israel Forum for Population, Environment and Society (in ebraico Tsafuf, affollato), l’urbanista Rachelle Alterman ha tenuto una conferenza che descrive Israele fra quindici anni. Una distesa di cemento da Ashkelon, al sud verso Gaza, a Nahariya, a nord verso il Libano, sul modello di Singapore, Hong Kong, i Paesi Bassi e il Belgio. La Shoresh Institution, guidata dall’economista Dan Ben-David, ritiene che Israele sarà la nazione più affollata del mondo. In Israele di sicuro la crescita demografica è il grande traino dello sviluppo economico impetuoso.

Israele è l’unico paese occidentale che ha ridotto il proprio debito in percentuale del pil nel 2012, quando il debito aumentava in tutti i paesi occidentali e in alcuni (come l’Italia) schizzava alle stelle. A causa del declino del debito, Israele è l’unico paese occidentale il cui rating è sempre aumentato dal 2008, quando scoppiò la crisi dei mutui subprime e il rating di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Austria, Belgio e Giappone si riduceva a causa di un enorme aumento dei debiti. Quando fu sottoscritto il trattato di Maastricht, i debiti di Israele erano il cento per cento del pil. Oggi sono la metà, tanto che il ministro delle Finanze Yuval Steinitz dichiara che “Israele guida il mondo in termini di riduzione del debito”.

Il suo mercato del lavoro è alla piena occupazione. Il tasso di disoccupazione nel paese è di 4,1, come gli Stati Uniti, rispetto al 6,8 dell’Unione europea. “Israele è passato da un enorme debito e un’inflazione galoppante a un’eccedenza nella bilancia dei pagamenti e un’inflazione che vorremmo fosse più alta”, ha detto il governatore della Banca d’Israele, Karnit Flug. A novembre, il ministro dell’Economia Eli Cohen ha detto che Israele mira a entrare a far parte dei primi dieci paesi al mondo per pil pro capite. L’agenzia di rating Standard and Poor’s ha aggiornato il rating di Israele alla doppia AA, il più alto che Israele abbia mai avuto, come la Germania e altri 17 paesi. L’agenzia di rating, come aveva fatto già Moody’s, stima che l’economia israeliana crescerà del 3,3 per cento tra il 2018 e il 2021. Il settore dell’innovazione tecnologica israeliano sta crescendo più velocemente dell’offerta, portando a una carenza di 15 mila lavoratori necessari per coprire le posizioni, come ha rivelato uno studio dell’Israel Innovation Authority.

Un rapporto di Deloitte&Touche ha dimostrato che in sei campi chiave – telecomunicazioni, microchip, software, biofarmaceutica, dispositivi medici ed energia pulita – Israele è secondo solo agli Stati Uniti per innovazione. Come riporta il Financial Times, “Israele spende di più in ricerca e sviluppo di qualsiasi altro paese sviluppato” e ha superato anche la tigre Corea del Sud, trasformando lo stato ebraico nella Hong Kong del medio oriente.

Un programma statale che ha facilitato la crescita in questo settore è “Yozma” (in ebraico, iniziativa), istituito per liberare l’economia israeliana da un’eccessiva dipendenza dal settore pubblico. Secondo l’Ocse, è “il programma di maggior successo nella storia della politica di innovazione di Israele”.

Ogni anno, le autorità israeliane organizzano la Fuel Choices and Smart Mobile Initiative, radunando start-up e innovatori da ogni parte del mondo. Senza dubbio Israele è più trivellazioni e mega infrastrutture. La recente scoperta di immense risorse di gas naturale al largo delle coste israeliane è stata una svolta per l’economia, e ha portato il paese all’indipendenza energetica. Il giacimento di gas naturale Tamar, con dieci trilioni di metri cubi di gas naturale, ora soddisfa il 95 per cento della domanda del paese.

Centinaia di chilometri di linee ferroviarie saranno costruiti nel centro di Israele: è il più grande progetto infrastrutturale pianificato per i prossimi decenni, costerà centinaia di miliardi e permetterà di collegare regioni e città a Tel Aviv. Il paese non si ferma mai.

Secondo Yaron Samid, uno dei grandi nomi delle start-up israeliane, imprenditore tecnologico direttore di consigli di amministrazione di aziende del valore di 500 milioni di dollari, fondatore di BillGuard che ha aperto la strada al crowdsourcing per proteggere i consumatori (una delle applicazioni di finanza personale in più rapida crescita nella storia), l’Europa ha molto da imparare da Israele.

Lo stato ebraico è al 16esimo posto nel rapporto 2017-2018 del Forum economico mondiale sulla competitività, migliorando di otto posizioni la propria performance rispetto all’anno precedente. E’ la prima volta che Israele è tra i primi venti. “Israele è densamente popolato, è un grande cluster di compagnie tecnologiche, un microsistema, da Tel Aviv a Herzliya in dieci minuti di auto hai il 90 per cento delle start-up israeliane”, dice Samid al Foglio. “Questo è sicuramente un vantaggio che l’Europa non ha. E’ come la Silicon Valley per gli Stati Uniti.

Ma c’è un aspetto culturale israeliano, che risale a 70 anni fa. Sto parlando con lei da un grattacielo di Tel Aviv, ma allora qui c’era il deserto e la gente venne a costruire un paese dal niente. I miei nonni sono tutti morti nella Shoah, in Germania, in Polonia, e i loro figli hanno fatto tutto dal niente. Un terzo elemento culturale è la facilità nell’ottenere denaro per aprire una start-up, e se fallisce ne apri un’altra. In Europa se fallisci, sei finito. Voi europei avete paura di fallire, in Israele no. Questa è cultura. Il quarto elemento è il servizio militare che si basa molto sull’high tech. Un diciottenne qui entra subito a contatto con un mondo speciale, e quando finisce entra nella società civile con una consapevolezza molto forte. Un ventunenne israeliano che ha finito il militare è il frutto di questa cultura. In Europa non sapete neppure cosa sia l’esercito. In Israele la prima domanda che ti fanno è: ‘Da quale unità vieni?’. In Israele entri in un qualsiasi bar e senti parlare di start-up”. 

Come si è arrivati a tutto questo partendo da una economia socialista fatiscente? “Il più grande evento in 70 anni di storia economica israeliana si è verificato il 1 luglio 1985”, scrive Sami Peretz su Haaretz. “Quel giorno, l’economia ha subito un cambio di sesso: la più drammatica transizione da un’economia socialista a una capitalista che conosciamo”.

Fu l’inizio del “programma di stabilizzazione economica” di Shimon Peres (il pil sarebbe passato da 30 miliardi nel 1984 a 300 nel 2014). L’economia fu aperta alle importazioni, il mercato valutario liberalizzato, il deficit ridotto e le imprese statali privatizzate. Ma già nel 1977 il ministro delle Finanze, Simcha Ehrlich, aveva avuto un’idea: liberare l’economia e rendere la vita migliore per la gente comune. Ehrlich, che possedeva una piccola fabbrica di ottica a Tel Aviv, era un uomo basso, dalle guance rosate e molto laconico. I media presero a chiamarlo “il seguace di Milton Friedman”, il guru del libero mercato che aveva vinto il Nobel per l’Economia. Ma Ehrlich non sapeva leggere e scrivere in inglese, né conosceva Friedman. Però aveva una visione: “Israele è troppo piccolo e troppo povero per mantenere uno stato sociale”. Al tempo, l’economia israeliana aveva più cose in comune con i paesi comunisti che con i paesi occidentali. La vignetta di un giornale israeliano, il Jerusalem Post, rifletteva bene le ansie del paese. Un israeliano cerca di spiegare il significato delle riforme liberiste a un altro. “E’ semplice”, dice il primo. “Lasciamo che la moneta israeliana diminuisca di valore, consenta lo scambio in dollari, le esportazioni diventano a basso costo e nel lungo periodo l’economia si rafforza”. “E nel breve?”, chiede il secondo. “Facciamo la fame”, risponde il primo. Le riforme di Ehrlich furono meno ambiziose del previsto, ma un vero “seguace di Friedman” come Benjamin Netanyahu, che si servì dell’aiuto dell’economista di George W. Bush John Snow come consulente, se ne sarebbe ispirato.

Sotto Netanyahu, Israele ha calato le tasse dal 60 al 49 percento, ha ridotto drasticamente il welfare, ha alzato l’età pensionabile da 65 a 67 anni, ha privatizzato la compagnia aerea El Al, ha ridotto il ruolo dello stato nel settore telefonico, dell’elettricità e delle banche. Al tempo, l’economia di Israele era una bizzarra combinazione di cronico assistenzialismo e di high tech fiorito alla fine degli anni Novanta. Come scrive l’economista americano George Gilder in “The Israel Test”, “il governo negli anni Novanta possedeva quattro grandi banche, duecento società e gran parte della terra. Le tasse di Israele salirono al 56 per cento dei guadagni totali, fra le più alte del mondo”. Da ministro delle Finanze, Netanyahu si trovò di fronte a un settore pubblico che rappresentava il 55 per cento dell’economia israeliana, rispetto al 45 per cento del settore privato, in netto calo. E lo paragonò a un uomo magro e in forma, il privato, costretto a portare un uomo pesante sulle spalle, il pubblico. “Se non cambiamo lo scenario, collasseremo”, disse Bibi. Così bloccò le assunzioni nel settore pubblico, ridusse la rete di protezione sociale, convinse i disoccupati a cercare lavoro, vendette il vendibile e costrinse i porti a competere. Come scrive Gilder, “in 25 anni – a partire da quelle prime modeste riforme fiscali della metà degli anni Ottanta – Israele ha compiuto la più travolgente trasformazione nella storia dell’economia”.

L’arrivo tra il 1989 e il 2000 di un milione di immigrati avrebbe dato un’altra sterzata all’economia. La società ha assorbito tutti e oggi mostra livelli di coesione interna assente, ad esempio, in un paese come la Francia. Basta leggersi l’Israeli Democracy Index 2018. La percentuale di israeliani che definiscono la situazione generale del paese come “buona” o “molto buona” è la più alta mai registrata. Anche il 64 per cento dei cittadini arabi è soddisfatto. L’Indice di Sviluppo umano dell’Onu che da trent’anni assegna ai paesi un punteggio calcolato sulla base di parametri come reddito, aspettativa di vita e istruzione, colloca Israele in 18esima posizione su 188 paesi, entrando a pieno titolo nella categoria dei paesi a “sviluppo umano molto elevato”. Solo gli abitanti di Svizzera, Danimarca e Islanda risultano più soddisfatti della propria vita dei solitamente lamentosi israeliani.

Jack Ma, fondatore di Alibaba, è appena diverse volte a Tel Aviv, dove a un forum economico ha detto: “Israele sa che la risorsa più preziosa al mondo non è il petrolio o il gas, ma il cervello umano. In Israele, l’innovazione è ovunque. Gli altri innovano per il successo. Israele innova per la sopravvivenza”. Considerando che ora si discute della sopravvivenza a rischio dell’Europa, che si crogiola nel proprio torpore e décadence, non ci farebbe male prendere a esempio da Israele. Che la La La Land diventi una Baby Land.

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