Vino senza alcol: l’Europa cambia le regole del gioco per aprire a nuovi mercati

Nelle ultime settimane imperversa il dibattito sul negoziato in corso nelle istituzioni dell’Unione Europea per regolamentare la produzione nei paesi membri di vini dealcolati, quelli cioè che contengono una percentuale molto bassa o pari a zero di alcol.

L’obiettivo è creare opportunità per il comparto agricolo comunitario, metterlo in condizione di soddisfare una domanda emergente non solo da parte dei paesi arabi, dove per motivi religiosi si è tenuti al consumo di prodotti analcolici, ma anche più in generale da parte di chi, per esigenze di salute o per scelta di vita, è sempre più incline a scegliere bevande con queste caratteristiche.

Stando infatti alle ricerche e agli osservatori provenienti da più fonti, il 70% della popolazione mondiale non acquista bevande alcoliche ma potrebbe consumare prodotti derivanti dal vigneto: un business potenziale con numeri da capogiro.

Eppure il dato sembrerebbe non sedurre i puristi della cultura enologica: “vini annacquati”, “inganni”, “trucchi di cantina” sono le parole che la maggioranza delle associazioni di categoria e dei produttori, soprattutto in Italia, ha usato per etichettare le soluzioni al vaglio delle istituzioni e per manifestare il proprio sdegno dopo la fuga di notizie dai palazzi di Bruxelles.

Ma il legislatore europeo sta davvero ipotizzando un via libera per ridurre la percentuale di alcol aggiungendo acqua al vino, così come farebbe un qualunque bevitore della domenica per diluire una bottiglia troppo impegnativa?

Non è esattamente così. Come spiegato da alcuni esperti ed enologi che si sono affacciati al dibattito per gettare un po’ di acqua sul fuoco, la dealcolazione è una pratica già in uso e regolamentata dall’UE e si realizza attraverso diverse tecniche come l’osmosi inversa e l’evaporazione sottovuoto.

In ogni caso la riduzione della componente alcolica non passa mai per l’aggiunta di liquidi esterni ma di quelli, come l’acqua di vegetazione, che sono derivati dal vino stesso nell’ambito delle suddette pratiche.

Quindi falso allarme sulla questione “annacquamento” nel senso più stretto del termine, posto che l’operazione di per sé resta comunque discutibile sotto diversi punti di vista.

Al di là delle tecniche applicabili e degli effetti che produce sulle componenti organolettiche, è improbabile che i produttori italiani, custodi della tradizione enologica, possano piegare secoli di storia e di tradizioni per rispondere supinamente alla richiesta del mercato e chiamare vino ciò che vino non è mai stato e non vogliono che mai possa diventare.

Perché è proprio questo è il tema in discussione sui tavoli di Bruxelles. La nuova PAC, La Politica Agricola Comunitaria che entrerà in vigore nel 2023 sbloccando miliardi di euro, deve definire le nuove regole per la commercializzazione ed etichettatura dei prodotti agricoli.

Al centro delle trattative non sono le disposizioni che riguardano la produzione di prodotti dealcolati (quelle esistono già dal 2008 e se ne riparla da un paio d’anni per settarle al meglio), quanto quelle che attengono la distribuzione con particolare riferimento alle norme che attualmente impediscono di chiamare “vino” un prodotto con meno 9 gradi di alcool.

Le proposte avanzate vorrebbero l’introduzione di due fattispecie, quelle dei “vini parzialmente dealcolati” e “vini dealcolati” e questo ha scatenato le polemiche, con relativa pioggia di comunicati stampa e dichiarazioni al vetriolo, prima fra tutte quella di Coldiretti secondo cui le nuove regole ipotizzate in materia sarebbero “un precedente pericolosissimo che metterebbe fortemente a rischio l’identità del vino italiano ed europeo”.

Ma i pareri non sono unanimi, e c’è chi ha preso le distanze da affermazioni così assolutiste invitando alla prudenza, almeno nell’approccio. Perché di soluzioni se ne possono trovare per far in modo che le opportunità offerte dalle nuove spinte del mercato non siano disperse, partendo dal presupposto che nuovi prodotti potrebbero integrarsi e non cannibalizzare quelli esistenti.

Una fra le più significative? Non escludere l’introduzione di prodotti totalmente dealcolati ma fare in modo che non si fregino mai della dicitura “vino”, al più si accontentino della definizione di “bevanda”, classificati come nuove categorie e non con termini che riconducano a quelle esistenti.

Ed è l’opzione sulla quale in Italia tutti convergono, emersa nella lettera congiunta che ACI (Alleanza delle Cooperative italiane), Assoenologi, Cia, Confagricoltura, Copagri, Federdoc, Federvini e Unione Italiana Vini hanno indirizzato al ministro delle Politiche agricole Patuanelli.

E se è vero che alcuni paesi dell’Unione, in particolare del Nord Europa, hanno aperto un altro fronte caldo del confronto proponendo di estendere etichette di denominazioni di origine, come DOP e IGP, anche ai vini dealcolati, andando oltre i vini da tavola, sono altrettanto valide le rassicurazioni di chi ricorda che queste scelte resteranno ai singoli paesi, ai produttori e ai loro disciplinari.

Il negoziato in sede europea è ancora in corso, e al momento è difficile prevedere quale sarà l’esito; ma un dato è certo, anche su questo fronte il mondo della produzione di uva e vino dovrà confrontarsi nell’immediato futuro.

Informazioni su Angela Petroccione 20 Articoli
Giornalista, esperta di comunicazione, muove i primi passi nel settore assicurativo per passare a quello politico istituzionale e al farmaceutico. La sua passione negli anni la porta a dedicarsi alla consulenza di marketing nel settore vinicolo. Racconta dei suoi viaggi e degustazioni in giro per l’Italia nel suo blog Visvino.

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