L’affermazione, in tempi di brutto artistico, di abiti deformi che rendono sgraziati, di scarpe ginniche con triple suole pesanti all’occhio come ceppi, per non dire a camminarci, di finti pauperismi pagati a peso d’oro e di generale caduta del senso del gusto può suonare addirittura anacronistica, ma ci fu un tempo, nemmeno troppo lontano, nel quale i creatori di moda pensavano ad una sola cosa: a far le donne belle.
Senza intellettualismi superficiali, senza fughe nel regno della pseudo arte: semplicemente creando vestiti belli, che magari una volta indossati nascondevano difetti ed esaltavano pregi. Il principe dei creatori innamorati delle donne e dei loro corpi, colui che sulla creazione di bellezza in formato couture ci ha costruito l’intera carriera fu Azzedine Alaïa, il maestro di origini tunisine scomparso nel 2017 e largamente rimpianto.
Quel che Alaïa è riuscito a fare con ago, forbici e mani, lavorando senza sosta bandelle di maglia stretch e mussole leggerissime, non ha uguali: un suo vestito era – ed è; la moda di Alaïa non ha tempo – l’equivalente di una liposuzione, o di una operazione di chirurgia estetica, senza bisogno di andare sotto i ferri. Era solito dire “La mia ossessione è rendere belle le donne. Quando crei con questo pensiero in testa, è difficile andare fuori moda”.
La perizia di questo uomo piccolo solo di statura nasceva da uno studio attento del corpo: non a caso si era formato come scultore. Lui i vestiti li scolpiva sempre sul manichino, in prima persona – cosa rarissima, nel mondo dei direttori creativi e del non professionismo che mette l’idea strampalata avanti a tutto – lavorando per una clientela di fedelissime compresa tra Greta Garbo e Michelle Obama.
Aveva i suoi tempi, e presentava le collezioni solo quando si sentiva pronto. Indipendenza, mestiere, ricerca del bello: questi suoi valori. Giurassici, forse, ma quanto mai necessari ad un sistema, oggi più che mai, bisognoso di ritrovare spessore.
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