L’insostenibile leggerezza dell’immagine. Tu chiamalo se vuoi immaginario. Ma di cosa parliamo tra mito e realtà reinventata al cinema, archetipi, strutture metaforiche e processi narrativi? Sull’argomento Edgar Morin ha scritto un testo fondamentale: “Il cinema o l’uomo immaginario”(nuova edizione per Raffaello Cortina Editore).
Senza inoltrarci in approfondimenti teorici, si può rilevare che ci nutriamo quotidianamente d’immagini altamente simboliche: dalle Torri gemelle abbattute l’11 settembre 2001 alle fotografie degli abusi nella prigione irachena di Abu Ghraib e, infine, all’incendio a Notre-Dame di Parigi. Tutto ciò assume una differente rilevanza quando siamo di fronte alle visioni filmiche, non smettendo però di confrontarci con i meccanismi d’interpretazione della realtà e con le nuove narrazioni del mondo.
Ogni finestra visiva che si apre rappresenta uno squarcio su cosmi e microcosmi. Così davanti a una serie come “Il Trono di Spade”, ora alla sua ottava e ultima stagione su Sky Atlantic, non smettiamo di porci domande e di appassionarci. Tuttavia, qual è il legame che unisce le immagini cosiddette realistiche, filtrate da media e Social Network, e quelle prodotte da più di un secolo di cinema? Forse la capacità delle scene in movimento di evocare sogni, proiezioni, desideri, scene fantasmatiche, incubi e miraggi, significanti e simboli, paure e speranze, visioni e idee nell’inconscio di chi guarda ma anche di chi non guarda, nel nome del visibile e del non visibile.
In più, come osserva Angela Maiello su Fata Morgana Web, “ciò che accade con Game of Thrones, e più in generale con tutti quei racconti capaci di influire nell’immaginario collettivo, di creare personaggi iconici, segnando un’epoca non soltanto televisiva (Breaking Bad, Mad Men o anche, in Italia, lo stesso Gomorra – La serie), è che questa modalità di adesione assume la forma di una prossimità molto forte tra lo spettatore e il racconto audiovisivo”.
Ci sono i creatori di mondi tramite il linguaggio filmico, come Fellini, Kubrick e Tarkovskij, solo per fare degli esempi, e ci sono ovviamente prodotti che confermano i mali del mondo e li trasformano in una narrazione avvincente, come molte serie su Netflix e Sky. Quest’apparato figurativo ed emozionale è un patrimonio di ogni spettatore. Un bagaglio che si tiene dentro di sé anche quando irrompe la violenza del reale attraverso immagini potenti o sbalorditive, in una contaminazione fra finzione e cronaca in diretta che costituisce l’essenza del nostro zapping e del navigare in rete quotidiano.
Non a caso, dopo 9.268 puntate, Blob, il celebre programma di Rai 3, compie trent’anni. Altra notizia da non trascurare: il 19 aprile, al cinema De Seta, ai Cantieri culturali della Zisa di Palermo, è in programma “Totò che visse due volte” (1998), regia di Ciprì e Maresco, nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna. In tempi di paura del “diverso” e paranoie acuite dal web, questo film sembra confermare una concezione antropologica delle miserie umane e delle povertà e marginalità periferiche, già sviscerata in Cinico Tv e nel film “Lo zio di Brooklyn”.
In ogni caso, ogni giorno, nella giostra dei compleanni, degli anniversari e delle morti, nuove o antiche immagini occupano lo scenario mediatico. Allora, come non pensare alla locandina memorabile di “Persona” (1966), regia di Ingmar Bergman, con Liv Ullmann e Bibi Andersson in un primo piano intenso e colorato di rosso? La scomparsa di un’attrice bergmaniana come Andersson, dunque, contribuisce a recuperare i segni di un’indimenticabile cura espressiva, nella composizione dell’inquadratura, frutto di uno dei maestri del cinema mondiale. Rivederla in film come “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole”, “Alle soglie della vita”, “Il volto”, “Passione”, “L’adultera” e “L’amante”, quest’ultimo diretto da Vilgot Sjöman, diventa un’occasione per ammirare una bellezza che non smette di arricchirsi di sfumature.
Nella giostra del mondo, che spesso avrebbe bisogno dello stile di un Max Ophüls, regista da ricordare, si celebra pure il compleanno di Claudia Cardinale e l’immaginario è alimentato dalla sua figura sensuale in titoli come “I soliti ignoti”, “Il Bell’Antonio”, “Rocco e i suoi fratelli”, “La ragazza con la valigia”, “8½”, “Il gattopardo”, “La ragazza di Bube”, “C’era una volta il West” (a proposito di rielaborazioni che attingono dal mito), tra gli altri.
Alternando ombre e nebbie, illusioni e frammenti di post-verità, il cinema macina icone e immagini simbolo. Vengono così in mente le parole di un romanziere, Javier Marías, da “Domani nella battaglia pensa a me” (Einaudi, 2005), affidate alla voce del protagonista: “E quanto poco rimane di ogni individuo nel tempo inutile come la neve scivolosa, di quanto poco rimane traccia, e di quel poco tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo.” In questa sospensione, la dimensione del romanzesco si staglia e domina pure quello che a Napoli chiamano l’imbroglio nel lenzuolo: l’ipotetico e il possibile invadono il grande schermo e non smettono d’interrogarci.
Nel frattempo, la Cineteca di Bologna festeggia il giorno della Liberazione con “Amarcord” (1973) di Federico Fellini e si può ricordare, nel bombardamento d’immagini e invettive a cui siamo esposti, la considerazione espressa nel felliniano “La voce della luna” (1990), da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni (prima edizione nel 1987 con Bollati Boringhieri): “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire.” E potremmo anche vedere davvero, oltre la superficie.
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