Dalla Bolivia a Hong Kong, cresce la protesta popolare. Somoza: “Tutte queste rivolte hanno tratti comuni”

Sono sempre di più le aree del pianeta interessate da tensioni e proteste molto violente. Le immagini e le notizie che, in queste settimane, sono giunte e ancora giungono da Hong Kong, Libano, Bolivia, Cile, Ecuador, solo per citarne alcune, evidenziano una linea di frattura molto estesa tra l’establishment politico e la cittadinanza.

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Con le dovute differenze di contesto, tali rivolte esprimono tutte una esigenza urgente di cambiamento reale, di risanamento degli squilibri socio-economici che la crisi mondiale ha accentuato, oltre ad una contemporanea richiesta di democrazia, anche laddove formalmente la democrazia esiste.

L’America Latina, come spesso accade, è una delle aree più colpite dalle tensioni di piazza: il rifiuto della corruzione, la delusione per alcune esperienze di governo o il rifiuto di forzature costituzionali hanno funzionato da detonatore. Motivi diversi, dunque, ma identica rabbia ed esiti a volte molto gravi, come nel caso del golpe in Bolivia, che però nasce da un precedente vulnus democratico. Una fase delicata che è comune a molti altri contesti, anche lontani geograficamente dal Sudamerica. Per comprendere meglio quel che sta avvenendo e fare un po’ di chiarezza, abbiamo intervistato Alfredo Luis Somoza, giornalista ed esperto di politica internazionale, in particolare di quel che riguarda l’America Latina.

Molte aree del mondo vivono momenti di grande tumulto. In un tuo recente articolo, hai parlato di linea di frattura tra cittadinanza e istituzioni. Come si è formata questa frattura?

Queste linee di frattura si stanno verificando in una fase mondiale di recessione. A livello popolare, c’è una rivolta contro la corruzione o le false promesse. Tutto questo crea un combinato disposto che poi esplode. In Sudamerica, ad esempio, il Paese nel quale poteva accadere una cosa simile era l’Argentina, ma non è successo perché la tensione è stata contenuta dalle elezioni, che si sono concluse con la vittoria del partito all’opposizione che propone una politica diversa rispetto a quella del governo. Quindi la scommessa delle urne ha evitato la rivolta di piazza. Il caso del Cile, invece, è diverso perché in Cile ad essere messi in discussione sono gli ultimi 30 anni della politica cilena, con gli accordi della transizione che hanno congelato un Paese basato sulla regola neoliberista, dove tutta la politica ha contribuito a far continuare questo modello negli anni. La vicenda invece più interessante attualmente è quella del Libano.

Perché?

Perché in Medio Oriente i conflitti predominanti, quelli noti a tutti, di solito riguardano i grandi drammi, come la questione palestinese o la guerra in Siria. Che ci sia stata una rivolta di tipo diverso, cioè per i prezzi e contro la corruzione, oltre ad essere un buon segnale per il Libano, in quanto testimonia una società civile libera, fa anche comprendere come in aree del pianeta di cui consideriamo solo alcuni aspetti, c’è invece tanto altro.

Ci sono punti in comune fra le proteste che si stanno susseguendo in aree del mondo lontane tra loro?

Sì, ci sono, ferme restando le caratteristiche geografiche, storiche e culturali e la differenza tra le varie situazioni. La vicenda libanese, ad esempio, per alcuni aspetti si collega molto bene a quella ecuadoriana, così come quella di Hong Kong e in parte ciò che accade in Bolivia riguardano la democrazia. A Hong Kong le proteste nascono dal timore che la Cina non rispetti gli accordi fatti con la Gran Bretagna per la transizione. In Bolivia, peraltro l’unica nazione sudamericana in crescita e senza un conflitto sociale acceso, si tratta di una questione politica dovuta al disconoscimento del referendum di tre anni fa nel quale la gente aveva rifiutato l’ipotesi che il presidente si potesse ricandidare a vita. Queste ultime sono rivolte per la democrazia, che poi possono prendere le pieghe più strane. A Hong Kong, per esempio, potrebbe finire molto velocemente in dramma, con l’intervento della Cina. Allo stesso modo, in Bolivia il rischio è che questa protesta civica venga strumentalizzata, come sta di fatto accadendo, da gruppi di estrema destra che hanno conti da regolare. Quindi sostanzialmente i filoni che legano queste proteste sono due: sociali e contro il modello vigente, come Ecuador, Libano, Cile e potenzialmente in Argentina, e democratici, come nei casi di Hong Kong e Bolivia.

A proposito di Bolivia, c’è chi parla di influenze esterne, di interessi sovranazionali legati a risorse come il litio. Qual è la verità?

Sicuramente il governo Morales non era ben visto da molti paesi della zona. Detto ciò, però, credo che sia molto sbrigativo e semplicistico addebitare quel che è accaduto a giochi o dietrologie internazionali. A parte che il litio boliviano è stato vincolato da un accordo firmato da Evo Morales con la Germania per i prossimi 70 anni, quindi quella risorsa importante era già stata associata a questa impresa mista che doveva nascere tra Bolivia e Germania e contro la quale i minatori boliviani hanno protestato. Morales non ha avuto il coraggio di fare quello che ad esempio fece Lula in Brasile quando, non potendo essere rieletto dopo due mandati, con l’80% di popolarità, mandò avanti la Rousseff. La crisi boliviana ha dunque una radice puramente politica che indica una certa incapacità di rinnovarsi e di evitare i vizi peggiori del caudillismo, molto forte nei paesi del cosiddetto asse bolivariano. Quindi, attribuire la vicenda boliviana a un gioco delle potenze per accaparrarsi il litio è una lettura piuttosto bollita, che riguarda un mondo che non c’è più da almeno 30-40 anni. Attualmente, gli Stati Uniti o chiunque fosse interessato al litio non sarebbe in grado da solo di buttare giù un governo e di metterne su un altro senza costruire prima un consenso. Oggi in Bolivia, quel consenso non c’è, perché se si andasse al voto il partito di Morales sarebbe ancora la prima forza del Paese.

La responsabilità della caduta di Morales pertanto è solo di Morales? E non anche di chi oggi ha preso il suo posto usando metodi poco democratici per conquistare il potere?

Va fatto un ragionamento complessivo. Molte esperienze di questo tipo in Sudamerica sono finite male perché nessuno ha saputo mai riconoscere né gli errori né gli orrori. Mi riferisco alla corruzione oppure alle forzature istituzionali. Tutti quelli che oggi in Bolivia stanno gridando al golpe, si sono ben guardati dall’aprire bocca quando nel 2016 Morales ha perso il referendum e non lo ha riconosciuto andando avanti. Anche quello è un golpe, se vogliamo essere dei puristi. Così come in Venezuela, quando nel 2015 Maduro perse le elezioni legislative e istituì una assemblea costituente parallela che esautorava il potere legislativo. Questa mancanza di autocritica è grave ed è foriera di disastri. In Bolivia tutto nasce dal fatto che Morales ha forzato la Costituzione, non accettando il limite dei due mandati. Nessuno critica questa cosa. Anzi, c’è un vittimismo usato per giustificare tutto. Faccio un errore, mi dichiaro vittima dell’imperialismo, del litio, del petrolio e non faccio mai i conti con la storia e con i miei errori. Ecco, è proprio questo vittimismo che sta spianando la strada alle destre, che utilizzano la protesta per i propri interessi.

Non esiste, quindi, un sistema di influenze esterne in molti paesi del Sudamerica? Una regia sovranazionale rispetto a quanto accaduto ad esempio con il tentativo di golpe in Venezuela o, ancor più, in Brasile dove, a quanto pare, Lula è stato messo fuorigioco da un complotto fondato su accuse false?

Si tende erroneamente a considerare l’America Latina un tutt’uno, quando in realtà è composta da tre parti: il Messico, il Centroamerica e il Sudamerica. I paesi centroamericani indubbiamente sono dentro una sfera d’influenza degli Stati Uniti ed è chiaro che tutto ciò che accade lì ha la regia di Washington. Il Messico, invece, è un Paese che per molti anni è stato antagonista degli USA, poi ha fatto un accordo che lo ha inserito in qualche modo nell’orbita statunitense, adesso ha un presidente che ripropone alcune vecchie bandiere di autonomia del Paese, tanto che ha dato asilo a Morales. Il Sudamerica è un’altra cosa. In Sudamerica gli USA contano molto poco ormai da tempo. È molto più importante e potente la Cina, che è il primo partner dei grandi paesi latinoamericani ed è quello che sta tenendo in vita il Venezuela di Maduro. Perché il Venezuela è tenuto in piedi dalla copertura politica della Russia e dai soldi che i cinesi anticipano in cambio di petrolio. Sono influenti alcuni paesi europei, come la Germania e la Francia, e appunto la Russia, che ha una sua influenza non solo in Venezuela, ma anche a Cuba e, ad esempio, in Bolivia. Gli USA non sono più il primo partner economico e si sono disinteressati di ciò che accadeva in Sudamerica, perché hanno cambiato la loro priorità in politica estera, che è diventata il Medio Oriente.

E riguardo al Brasile?

Nel caso del Brasile, Bolsonaro è il prodotto di una politica nuova, che punta alla costruzione di una leadership a partire da una serie di strumenti moderni. Lui ha avuto come consulente Steve Bannon, ossia l’uomo che ha fatto eleggere Trump e ha fatto passare la Brexit. Bolsonaro ha avuto a disposizione le tecniche più moderne della comunicazione politica e la rete delle chiese riformate, dei predicatori, perché lui stesso è evangelico, facendo da catalizzatore della protesta contro il Partito dei Lavoratori. Ma è un fenomeno passeggero. Già adesso Bolsonaro conta poco. I sondaggi lo danno al 30% e se si votasse oggi perderebbe le elezioni. È un personaggio costruito ad arte che si è ormai consumato, anche per incapacità propria.

Hai parlato di come questi tumulti accadano in una fase mondiale di recessione. Possiamo dire che la globalizzazione è ufficialmente in crisi? Quali cambiamenti determinerà?

Credo che la globalizzazione fosse già cambiata sei o sette anni fa, quando si è esaurita la prima fase, quella della delocalizzazione produttiva. Ormai solo marginalmente si spostano lavorazioni da una parte all’altra per differenziare il costo del lavoro, perché questo differenziale non è più concorrenziale. Andare a produrre in Romania o in Cina per esportare oggi non conviene più. Il punto è che non sono tornate indietro le cose che se ne erano andate. Oggi nessuno delocalizza più in Cina perché non c’è più niente da delocalizzare. Interi comparti se ne sono andati: la metallurgia, la chimica, il tessile, ecc. E i paesi che hanno ricevuto queste ondate di investimenti produttivi, come Cina, India, Messico, hanno fatto tesoro di queste cose. Pensiamo alla Cina e al tipo di prodotti che è in grado di fare a distanza di venti anni: dalla paccottiglia si è passati a tutta la gamma della tecnologia. Il dramma è nei paesi dai quali quelle industrie sono andate via, perché non c’è stata alcuna idea e nessuna progettualità per capire cosa fare dopo e quale alternativa proporre.

Informazioni su Massimiliano Perna 14 Articoli
Massimiliano Perna è autore e giornalista freelance. Siracusano, risiede in Sicilia dopo aver vissuto per molti anni a Milano, si occupa di diritti umani, temi sociali, legalità e ambiente. Ha pubblicato inchieste con diverse testate, tra cui Repubblica, Avvenire, l’Unità, Micromega.net, Liberainformazione, Terre di Mezzo, Altreconomia, L’Isola Possibile, Left, I Siciliani. Ha collaborato con RadioRai1 e Radio Popolare e, per una puntata, ha collaborato con la trasmissione di LA7, Propaganda Live. A febbraio 2019 ha ricevuto una menzione speciale al Premio Nazionale “Giuseppe Fava” Giovani. Ha all'attivo numerose pubblicazioni, tra saggi e antologie, e dirige il sito web di approfondimento e dibattito, www.ilmegafono.org, che ha fondato nel 2006. "57 Quarto Oggiaro" è il suo primo documentario.

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