Taiwan rappresenta un tassello fondamentale della partita tecnologica tra Stati Uniti e Cina. La Repubblica Popolare Cinese controlla l’estrazione e la lavorazione delle cosiddette “terre rare”, i minerali impiegati nella costruzione di tutti i prodotti ad elevato contenuto hi-tech (batterie per auto, smartphone, computer). Gli Usa e la Corea del Sud sono invece all’avanguardia nella progettazione dei microchip. Di fatto, la filiera produttiva tecnologica unisce le prime due potenze al mondo. Taiwan è il primo produttore mondiale di chip ed è il crocevia della battaglia per la supremazia tecnologica.
Pechino vorrebbe prendere il controllo di Taiwan (pacificamente o con la forza) entro il 2049 ma da alcuni mesi ha intensificato le manovre militari in questa direzione, scatenando le proteste di quasi tutto l’Occidente. Lo scopo, oltre al controllo del mercato dei chip, è dichiarare compiuto il processo di formazione nazionale, proteggere la costa della Repubblica Popolare dagli attacchi navali e accedere all’Oceano Pacifico senza incappare nel monitoraggio delle basi americane intorno al Mar Cinese Meridionale.
Pechino vuole svincolarsi dalla catena del valore americana. Washington cerca di ridimensionare la dipendenza dalle terre rare cinesi in collaborazione con Giappone e Australia.
La partita tecnologica è talmente determinante per gli equilibri geopolitici che anche il Giappone, terza economia del pianeta e storicamente reticente a qualsiasi tipo di alleanza, ha deciso di scendere in campo.
Per competere nel mercato globale dei chip e non rischiare di diventare “irrilevante” a livello geopolitico ed economico, il Giappone ha bisogno di una nuova visione strategica capace di stare al passo con quanto stanno facendo in questi anni Stati Uniti e Cina nel settore sempre più decisivo della produzione dei semiconduttori. Parola di Takayuki Kobayashi, il ministro per la Sicurezza economica, dicastero creato ad hoc dal governo del premier Kishida.
«La questione è come possiamo stabilire aree in cui eccellere in modo che la comunità internazionale non possa sopravvivere senza il Giappone», ha raccontato Kobayashi in un’intervista al Financial Times. Compito arduo quello che si prefigge questo 46enne laureato ad Harvard a cui è stato dato un mandato tanto potente quanto delicato: supervisionare e intervenire in questioni di sicurezza economica cruciali per il Paese che vanno dai chip alle terre rare fino alla cybersecurity.
Provando ad allineare Tokyo ai suoi principali concorrenti in questi campi: Washington e Pechino. E proprio seguendo l’esempio di Usa e Cina, parte della nuova strategia di crescita del Giappone — assicura il neoministro — si concentrerà sulla costruzione di una catena di fornitura di semiconduttori sufficientemente autonoma in grado di sopravvivere alle interruzioni a livello globale che la pandemia ha acuito.
Per fare tutto ciò il governo nipponico si è appena assicurato un alleato di peso: Taiwan. La piccola isola, la “provincia ribelle” che Pechino rivuole e che è al centro dello scontro tra Cina e Usa, nel campo dei chip non ha rivali.
La sua forza si chiama Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co): la più grande fabbrica di semiconduttori al mondo. Dai suoi impianti di Hsinchu — “la città ventosa” — si fabbricano i chip che fanno funzionare i prodotti che utilizziamo tutti i giorni: dagli smartphone ai computer fino alle automobili.
Ora il governo di Tokyo e Tsmc sono convolati a nozze: l’azienda taiwanese — dietro sostanziosi sussidi — aprirà il prossimo anno un nuovo stabilimento, operativo già dal 2024, nella città di Kumamoto. Servirà principalmente alla Sony, primo cliente giapponese di Tsmc, e soprattutto per far fronte alle pressioni geopolitiche riportando la produzione in patria cercando di alleviare i disagi nella catena delle forniture.
In questo triangolo Taiwan si trova al centro anche della partita tecnologica (e dunque militare ed economica) tra Washington e Pechino. E viste le tensioni nello Stretto di Formosa, l’Amministrazione Biden ha annunciato che destinerà 50 miliardi di dollari per incrementare la produzione nazionale in casa propria. Pure la Cina fa affidamento sui chip made in Taiwan e Pechino sta lavorando per potenziare la sua di industria (35,2 miliardi di dollari stanziati lo scorso anno, anche se continua ad essere dipendente dai mercati esteri, con importazioni superiori ai 300 miliardi in tutti gli ultimi tre anni).
Tsmc, in ogni caso, non fa gola soltanto al Giappone e l’azienda taiwanese a giugno ha già aperto infatti un impianto in Arizona e un altro in Germania è allo studio. Bisogna guardarsi dalla concorrenza, però, soprattutto di Samsung. L’azienda sudcoreana ha messo sul piatto diversi miliardi di dollari per un impianto in Texas, spinta anche dall’ambiziosissimo piano del governo di Seul che a maggio ha destinato 451 miliardi di dollari al settore per “diventare una superpotenza mondiale”.
La partita tra le potenze tecnologiche è solo all’inizio, l’unica certezza è che chi riuscirà a controllare i microchip di Taiwan sarà in grande vantaggio.
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