Hong Kong è di nuovo in stato di assedio. Gli attivisti protestano contro la legge a tutela dell’inno nazionale cinese. La polizia ha effettuato più di duecento arresti. Una situazione di guerriglia permanente quella in cui si trova l’ex colonia britannica da ormai diverso tempo. Le prime proteste sono iniziate l’anno scorso contro un emendamento alla legge sulle estradizioni. Il nuovo provvedimento, come il precedente, è considerato un’ingerenza di Pechino negli affari della regione ad amministrazione speciale.
Il filo rosso con la “protesta degli ombrelli”
I cittadini dell’ex colonia britannica hanno già dato prova di non voler accettare passivamente le decisioni di Pechino. Nel 2014 si riversarono nelle strade di Hong Kong con i loro ombrelli multicolore, dando il via ad una protesta pacifica che durò più di due mesi. La “rivoluzione degli ombrelli” fu un movimento giovanile nato dal basso al grido di più democrazia e meno autoritarismo. Gli ombrelli colorati divennero il simbolo della non-violenza e lo strumento che permise ai manifestanti di difendersi sia dal sole cocente sia dai lacrimogeni e dagli spray urticanti della polizia. I giovani di Hong Kong chiedevano elezioni a suffragio universale in vista delle elezioni del governatore e protestavano contro il controllo delle candidature da parte cinese.
Dopo 75 giorni di occupazione e sit-in studenteschi nelle strade nevralgiche del quartiere degli affari di Admiralty, la polizia smantellò le tende, le sale di studio, gli ombrelli, le opere d’arte e tutti i grandi e piccoli luoghi simbolici della più lunga contestazione democratica vista tanto a Hong Kong come nella Cina metropolitana negli ultimi 30 anni.
Il modello “un paese, due sistemi” che garantisce l’autonomia
Il primo luglio del 2019 ricorre il ventesimo anniversario della restituzione ufficiale di Hong Kong alla Cina, dopo una lunga fase caratterizzata dal dominio britannico. Tornata alla patria attraverso il modello di integrazione Un Paese, Due Sistemi, che Pechino avrebbe poi applicato anche a Macao a partire dal 1999, oggi la Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong, sesto mercato azionario mondiale, gode di una rappresentatività democratica sconosciuta nel periodo coloniale ed è una realtà di 7,3 milioni di abitanti che produce un PIL pari a circa 321 miliardi di dollari, di cui il 92% proveniente dal settore dei servizi.
Due dei più importanti lasciti politici di Deng Xiaoping sono l’introduzione della dottrina Un Paese, Due Sistemi e quella della politica di Riforma e Apertura. La prima ha contribuito a risolvere un importante enigma costituzionale. La seconda ha invece aiutato la Cina a strappare alla povertà milioni di persone. Durante uno storico vertice tra Deng ed il primo ministro britannico Margaret Thatcher nel 1982, la Iron Lady mostrò tutta la sua riluttanza a restituire Hong Kong alla Cina, facendo riferimento ai diversi sistemi di governo tra il Paese asiatico ed il Regno Unito. In risposta, Deng propose che Hong Kong avrebbe potuto mantenere il suo modello capitalistico. Fu quella promessa ad ammorbidire infine la posizione britannica.
«Deng Xiaoping sosteneva che il mercato azionario non è monopolio del capitalismo. Egli inventò una versione singolare che definì col nome di socialismo con caratteristiche cinesi», ha detto Gao Zhikai, ex interprete di Deng, durante un’intervista a CGTN. La decisione fu definitiva. Ma la Cina era alla disperata ricerca di un buon insegnante. E Hong Kong sembrava perfetta per la circostanza. «Per effetto del suo sistema di common law e delle sue tradizioni di rafforzamento dello Stato di diritto, Hong Kong è ancora un luogo favorevole e funzionale per fare affari», ha osservato Gao.
Dopo alcune fasi di studi sul campo a Hong Kong, la Cina aprì le borse di Shanghai e di Shenzhen nel 1990. Nei primissimi anni dopo il suo ritorno sotto la sovranità cinese, Hong Kong contribuì in maniera ineguagliabile allo sviluppo economico della Cina. Nel 1997, il 18% del PIL cinese era concentrato a Hong Kong. Venti anni dopo, quella cifra è scesa al 3% grazie alla crescita significativa dell’economia della Cina continentale nel frattempo. Oggi, città della Terraferma come Shanghai, Guangzhou e Shenzhen stanno diventando nuovi centri per il commercio e gli affari. Alcuni temono che Hong Kong possa essere scavalcata da quelle stesse metropoli che da essa hanno imparato.
«Non credo per un solo momento che Hong Kong stia perdendo la sua competitività», disse a Xinhua nel 2014 Charles Powell, ex segretario privato di Margaret Thatcher. «Hong Kong è attualmente una piccola porzione dell’intera economia cinese soltanto perché la Cina sta crescendo molto velocemente. Tuttavia, Hong Kong è ancora il centro preminente in Asia per i servizi finanziari, quelli legali e per gli aspetti più avanzati dell’economia. Credo che continuerà ad esserlo».
Proprio come disse una volta il governatore uscente di Hong Kong, Leung Chun-ying, la regione amministrativa speciale dovrebbe giocare il ruolo di “super-coordinatore” tra la Cina continentale e il resto del mondo. Forse questo rappresenta la miglior chance per Hong Kong di conservare il suo dinamismo economico e rimanere un Gioiello d’Oriente.
Considerazioni
Appare evidente la legge a tutela dell’inno nazionale cinese sia un tentativo di Pechino di forzare i tempi del ritorno di Hong Kong sotto il pieno controllo cinese, violando gli accordi col Regno Unito.
Ma la Cina in questa fase ha altra priorità, anzitutto trovare una soluzione alla guerra commerciale con gli USA che rischia di compromettere la crescita cinese dei prossimi anni. Senza dimenticare che Pechino ha gli occhi del mondo addosso per la nuova Via della Seta e non può permettersi il lusso di trovarsi al centro di polemiche internazionali proprio mentre sta negoziando con l’Occidente le infrastrutture da realizzare per integrare il traffico merci nella Belt Road.
Queste motivazioni probabilmente spingeranno Pechino a non andare ad un scontro frontale con la comunità internazionale. Ma la partita è ancora in corso.
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