Il core business delle mafie è quello che non si vede, soprattutto nelle emergenze

Le mafie non si fermano. Anzi, come ha detto qualche giorno fa il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, l’emergenza può essere, per la criminalità organizzata, un’occasione da sfruttare.

C’è bisogno pertanto di mantenere alta la guardia e di continuare ad occuparsi di mafia. È necessario tornare a parlarne e farlo nel modo giusto, cercando di comprendere come le mafie sono cambiate, quale volto hanno assunto e qual è oggi il vero core business dei clan. Elementi fondamentali anche per capire quali strategie siano più funzionali per combatterla adeguatamente.

La dimensione repressiva della lotta alla mafia, infatti, è sicuramente importante e richiede strumenti sempre più moderni per aiutare le donne e gli uomini che combattono sul campo e dentro le procure. Ma la dimensione repressiva da sola non basta. C’è bisogno di una azione politica ad ampio respiro che intervenga laddove l’intreccio tra mafia, professionisti, amministratori e finanza si compie.

Oggi, la criminalità organizzata si è infiltrata sempre di più nel tessuto economico e politico, cercando nuovi ambiti nei quali investire i proventi delle attività illecite, prima fra tutte il traffico di stupefacenti. Ciò ha portato ad alcuni cambiamenti importanti che vanno considerati se si vuole conoscere e affrontare il fenomeno in maniera adeguata.

Ad aiutarci a capire meglio, sono le parole di un magistrato che, sin dall’inizio della sua carriera professionale, si è occupato di mafia. Parliamo di Sebastiano Ardita, oggi consigliere eletto del Csm e in passato sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, membro della Direzione Distrettuale Antimafia e poi Procuratore Aggiunto sia a Messina che a Catania. Un magistrato esperto che, nel corso di una relazione durante un premio antimafia dedicato a Pippo Fava, ha spiegato l’evoluzione del fenomeno. “Dobbiamo guardare al fenomeno mafioso odierno – ha detto Ardita – con gli occhi del 2020 e non con quelli del 1992. Perché la mafia è cambiata, ha modificato la sua strategia, scegliendo di gestire in modo più esterno le attività criminali visibili, quelle che si svolgono nei territori, per concentrarsi su quelle meno visibili, che richiedono la collaborazione di soggetti capaci di indirizzare e gestire i soldi e reinvestirli in attività diverse”.

Un cambiamento che si misura in una diversa natura dei rapporti con quella parte della criminalità che esercita in modo sanguinoso e più evidente il controllo del territorio. “Oggi – ha affermato il magistrato – continuiamo in gran parte a considerare le mafie semplicemente un fenomeno violento, di cui ci accorgiamo solo quando si spara o si fa una retata di spacciatori. Solo che, come dimostrano numerose indagini, i vertici mafiosi non hanno più rapporti diretti con chi opera sui territori. Un tempo, chi controllava una zona aveva conoscenza di informazioni di alto livello che poi, attraverso arresti e collaborazioni, finivano nelle mani delle forze di polizia e magistrati”. “Ad esempio, negli anni ’90 – ha ricordato Ardita -, quando interrogavamo i collaboratori di giustizia, i capidecina che governavano le squadre che dovevano compiere azioni omicidiarie o estortive erano al corrente di molte informazioni su rapporti con politici e istituzioni. E noi ne venivamo in possesso. Oggi tutto questo è meno semplice, perché le mafie si sono fatte furbe”. Dunque, le organizzazioni criminali controllano il territorio attraverso soggetti che non hanno un diretto contatto con i vertici, una sorta di franchising di un brand che i suoi utili li realizza ad altri livelli. Una situazione che per perdurare ha bisogno di due ingredienti fondamentali: il silenzio e la complicità di professionisti e amministratori.

“I soldi delle mafie – ha proseguito il magistrato – vengono reinvestiti in attività diverse e si hanno rapporti con soggetti che garantiscono questi investimenti. Si cercano rapporti con le istituzioni, con la politica. Quello che una volta era considerato un concorso esterno, con i professionisti e i colletti bianchi, oggi è diventato il vero core business. Un’attività coperta, della quale non si deve parlare. Ecco perché non mi stupisco affatto che di mafia non si parli più. Anzi, ritengo che questa sia la diretta conseguenza di come essa abbia assunto nuovi connotati. Non è che non si spara più, è che i fenomeni mafiosi sono nati per essere sostanzialmente invisibili. Hanno funzionato finché sono rimasti invisibili”. Tra gli spunti più interessanti della relazione del consigliere del Csm c’è quello che riguarda il modo di guardare al rapporto tra crimine organizzato e disagio sociale, spesso identificato con i quartieri a rischio: “Quando parliamo di lotta alla mafia – ha affermato – focalizzandoci sui quartieri a rischio, dove si spara e si spaccia, facciamo un errore. La realtà è cambiata. In quei quartieri ci sono persone che ogni giorno scelgono di delinquere, perché c’è uno Stato assente o presente solo in forma repressiva, senza una offerta di integrazione sociale. Ma la mafia è altrove, ha altri canali, ha un’alta protezione, punta a settori più sofisticati, come ad esempio gli appalti. Noi oggi rischiamo di fare una giustizia di ceto, di cercare la mafia soltanto dove c’è il disagio, lamentandoci al contempo della cattiva gestione di risorse che molto spesso è il frutto dei rapporti fra vertici della criminalità che conta e istituzioni che non funzionano. Così, noi che abbiamo responsabilità ci limitiamo ad arrestare gli spacciatori, parliamo di vittoria della lotta alla mafia, ma in realtà il vero core business, il vero problema non lo abbiamo nemmeno sfiorato”.

Servono dunque soluzioni più efficaci e complessive per estirpare questa malapianta che inquina il nostro Paese a più livelli. “C’è bisogno di una politica di ampio respiro – ha sottolineato Ardita – che, oltre a potenziare le strutture della giustizia e gli strumenti di intelligence e di contrasto militare alle mafie, punti parallelamente a sostenere le avanguardie antimafiose presenti al Sud, a garantire una gestione corretta, pubblica, trasparente dei beni confiscati, ad adottare misure virtuose contro il degrado, il disagio giovanile, la disoccupazione, misure a sostegno dell’istruzione scolastica. Senza un piano di crescita economica e senza il rafforzamento sociale di una cultura che renda non conveniente la strada del crimine, nessuna lotta alla mafia sarà veramente possibile e nessuna strategia repressiva avrà veramente successo”.

Informazioni su Massimiliano Perna 14 Articoli
Massimiliano Perna è autore e giornalista freelance. Siracusano, risiede in Sicilia dopo aver vissuto per molti anni a Milano, si occupa di diritti umani, temi sociali, legalità e ambiente. Ha pubblicato inchieste con diverse testate, tra cui Repubblica, Avvenire, l’Unità, Micromega.net, Liberainformazione, Terre di Mezzo, Altreconomia, L’Isola Possibile, Left, I Siciliani. Ha collaborato con RadioRai1 e Radio Popolare e, per una puntata, ha collaborato con la trasmissione di LA7, Propaganda Live. A febbraio 2019 ha ricevuto una menzione speciale al Premio Nazionale “Giuseppe Fava” Giovani. Ha all'attivo numerose pubblicazioni, tra saggi e antologie, e dirige il sito web di approfondimento e dibattito, www.ilmegafono.org, che ha fondato nel 2006. "57 Quarto Oggiaro" è il suo primo documentario.