“Gli oggetti non sono affidabili, i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni. Le usiamo per tenere la crepa aperta”, scrive Nadia Terranova nel romanzo “Addio fantasmi” (Einaudi, 2018).
Per citare Harold Pinter e Natalia Ginzburg, numi tutelari della sua scrittura, i suoi libri sono affollati “della morta gioventù degli anni” e un “lessico famigliare” mescola memoria e invenzione narrativa. Da qui la cura di ogni parola, pazientemente intrisa d’echi dell’infanzia e di suggestioni romanzesche, in un insieme di emotività, levità, incanto e dolorosa consapevolezza.
Con “Gli anni al contrario” (Einaudi, 2015, Premio Bagutta Opera Prima, Premio Brancati e The Bridge Book Award, fra i tanti riconoscimenti) e “Addio fantasmi”, candidato allo Strega 2019, la scrittrice siciliana (è nata a Messina nel 1978) racconta i sopravvissuti e il punto di vista di chi si confronta con la voce e la visione di quando si era bambini.
Dagli occhi della picciridda, figlia della giovane coppia al centro di una vicenda che intreccia la Storia e il privato nella Messina del 1977, nel precedente “Gli anni al contrario”, al ritorno di Ida nella casa delle origini, sempre nella città dello Stretto, nel successivo romanzo, Terranova gioca con gli elementi fantasmatici della letteratura in una delicata combinazione di vivi e morti e di presenze/assenze, come l’ombra di un padre svanito nel nulla.
La stessa autrice, a conferma di una capacità di attingere dal patrimonio dell’infanzia, ha scritto diversi libri destinati ai più giovani: dopo “Bruno il bambino che imparò a volare” (Orecchio acerbo, 2012, illustrazioni di Ofra Amit), “Le nuvole per terra” (Einaudi Ragazzi, 2015) e “Casca il mondo” (Mondadori, 2016), ha appena pubblicato “Omero è stato qui” (Bompiani, 2019, illustrazioni di Vanna Vinci). L’intervista è un’occasione per ripensare le ragioni del suo lavoro introspettivo, mentre la corsa per lo Strega è solo agli inizi, in vista della cinquina dei finalisti il prossimo 12 giugno.
In Addio fantasmi, si è apprezzata la precisione chirurgica nell’evocare e rielaborare sentimenti ed emozioni, ferite interiori e dolori, con scrittrici come Annie Ernaux e Natalia Ginzburg come modelli. Qual è il senso ultimo di questo scrivere? Forse ricordare e inventare al tempo stesso?
«Una scrittrice da me stimatissima, Lisa Ginzburg, usa con precisione il verbo “trasfigurare”. È quello che facciamo, secondo me: né inventiamo né rievochiamo, ma saccheggiamo da ciò che abbiamo visto o vissuto creando una nuova realtà possibile.»
In “Omero è stato qui” rivisita i miti dello Stretto di Messina: da Colapesce alle Sirene e da Dina e Clarenza a Scilla e Cariddi e Mata e Grifone. La sua letteratura non può fare a meno di confrontarsi con i luoghi d’origine, tra fantasia e realtà?
«Volevo omaggiare il mio mare e la mia città raccontando le storie che hanno forgiato il mio immaginario d’infanzia e che permeano sempre i miei libri, è stato naturale scriverle una dopo l’altra, nella forma in cui le ho sempre pensate. Ci sono molti elementi fantastici e mostruosi, lì dentro.»
“Bruno. Il bambino che imparò a volare”, “Gli anni al contrario” e “Addio fantasmi” sono stati tradotti in molti Paesi, ad esempio in Francia e da poco negli Stati Uniti. Che cosa significa vedere la propria narrazione trasformarsi in altre parole e strutture grammaticali?
«È stupendo per molti motivi. Uno è la possibilità di essere letti da scrittori che stimi e che parlano e scrivono in altre lingue, in fondo è grazie alla traduzione che ho potuto intavolare un dialogo con una delle più grandi scrittrici viventi, Annie Ernaux. Poi, se si ha la possibilità di sfruttare un invito, il viaggio è sempre un’occasione di conoscenza per uno scrittore, e la conoscenza è l’anticamera di una nuova scrittura. Insomma, diventa una specie di catena virtuosa.»
Come ricorda Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, il miracolo di Leopardi è stato quello di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Quanto è importante per lei la leggerezza, pur facendo i conti con i pesi della memoria?
«Leggerezza e rapidità sono le mie lezioni calviniane preferite. Non si dovrebbero mai dimenticare. Quanta profondità c’è in entrambe…»
In “Addio fantasmi” scrive: “Io penso sempre alle cose che mi ricordo e pure a quelle di cui non ho memoria: ho spazio anche per loro.”
«Non si tratta solo di raccontare ciò che si conosce bene, che è fondamentale, ma di ripercorrere, risalire il fiume e fermarsi a guardare sponde mai esplorate prima: l’invenzione completa l’attività della memoria.»
Che cos’è per lei la memoria?
«Come scrive Annie Ernaux, è “una maniacale attrezzista di scena”.»
Ritiene anche lei, come Proust, che la verità suprema della vita sia nell’arte?
«Sì. L’arte è la vita raccontata meglio.»
Partecipare allo Strega, presentata dal giornalista e scrittore Pierluigi Battista, significa sconvolgere la propria esistenza? Teme di essere travolta dai meccanismi della competizione o prevale la fascinazione per un premio che ha visto vincitori Morante, Ginzburg, Ortese, Bufalino e Consolo, tra gli altri?
«La storia del Premio Strega, compresa quella tracciata dai perdenti e dagli esclusi, è la storia della letteratura italiana del Novecento; come lettrice sono totalmente dentro quella storia, dunque è un doppio onore che “Addio fantasmi” sia stato candidato e poi selezionato. Il mio libro ha avuto una bellissima opportunità, è lui a giocare, non io: io mi limito a seguirlo e a osservare, per me ogni cosa è un’occasione, anche di scrittura.»
Un sogno e un progetto futuro? «Il prossimo romanzo. Darò tutta me stessa come al solito e sarà diverso dal primo e diverso dal secondo. L’unica cosa che ci sarà in comune sarà Messina. Non dico altro manco morta, ancora è troppo presto.»
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