Le energie rinnovabili sono meno verdi di quello che sembrano

Un mondo elettrico, finalmente libero da cartelli petroliferi e dal timore di un esaurimento delle risorse. Un mondo smart e pulito, che superi il modello ottocentesco fatto di estrazioni e combustione. Il raggiungimento di questa nuova Arcadia è veramente la posta in palio della transizione energetica o siamo di fronte ad una narrativa molto generosa a favore delle nuove fonti?

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In realtà, analizzando nel dettaglio l’intero ciclo di produzione, questo antagonismo tra opposte strutture appare come una grossa semplificazione. Infatti, dietro la cosiddetta rivoluzione verde ci sono modelli industriali ed energetici che non rappresentano una discontinuità con il passato. Anzi, in determinati casi appaiono ancora più invasivi. Si tratta ad esempio dei modelli di estrazione dei minerali necessari per i motori elettrici e le batterie.

I metalli del passato e quelli attuali

Fino agli anni ‘70 il mondo sfruttava solo una ventina di metalli. Con il boom dell’elettronica, e poi delle fonti rinnovabili, abbiamo cominciato ad usare quasi tutta la Tavola Periodica degli elementi e i suoi ottanta metalli. Si tratta di metalli che hanno proprietà magnetiche, di catalizzatori, di accumulo, e di conduttori. A livello di batterie si privilegiano gli ioni di litio, il più leggero dei metalli, che presenta anche una elevata densità energetica, consentendo di stoccare più energia. I primi cellulari usavano il piombo e pesavano circa un chilo solo di batterie e presentavano un’autonomia di appena trenta minuti. Il litio ha dieci volte la densità energetica del piombo e consente di avere telefonini dal peso di poco più di un etto, con una capacità di conversazione di 14 ore.

Il cobalto (kobolt era il folletto diabolico che faceva trovare un inutile metallo ai cercatori d’oro tedeschi) è anch’esso essenziale nelle batterie dei veicoli elettrici che contengono fino a 10-15 kg di minerale. E poi il manganese e il nichel per la produzione dei catodi, la grafite per gli anodi. Recentemente abbiamo cominciato a sfruttare i lantanidi, cioè i 15 elementi che vanno dal lantanio al lutezio (numero atomico tra il 57 e il 71), oltre allo scandio e all’ittrio.

Questi 17 elementi sono chiamati erroneamente “terre rare”, per la loro difficoltà di produzione (sono spesso concentrati in meno del 3 percento della roccia da cui sono estratti) e non per la loro ampia disponibilità nel sottosuolo. I più utili sono il neodimio (magnete usato nei motori elettrici), il disprosio (dal greco “difficile arrivarci”), il praseodimio, il gallio o il cerio. Il 60 percento delle terre rare sono usate come magneti (da cui generano il 90 percento del valore) o catalizzatori. Come il litio, che ha una elevata densità energetica, i lantanidi assicurano un’elevata suscettività magnetica in poco peso. Insomma, per fare ricette sempre più gourmet, abbiamo riempito la cucina non solo di rosmarino o salvia ma di zafferano rosso o caviale albino. Sapori forti con poche quantità. E ci stiamo sbizzarrendo nel come usarli.

L’estrazione, un lavoro brutale e certosino

Ma produrre questi minerali è un’operazione complessa, per stomaci forti. Infatti, estrarre metalli non è come produrre idrocarburi liquidi o gassosi da una roccia in pressione (perforare fino a 5 km di profondità con sottili cannucce – il diametro finale di un pozzo è poco più grande di un piattino per il pane al ristorante), ma richiede lo sbancamento di tonnellate di roccia da cui estrarre i materiali chiave. Il lavoro di estrazione è brutale e certosino allo stesso tempo. Infatti, i minerali non si trovano quasi mai in forma pura ma assemblati assieme ad altri.

Ad esempio, da un chilo di roccia si possono estrarre 66,5 milligrammi di cerio, 19 di gallio e 0,8 di lutezio. Ogni anno il mondo consuma 150 mila tonnellate di cobalto e 170 mila tonnellate di terre rare, che vengono estratti a loro volta da miliardi di tonnellate di altro materiale e purificati. Per questo le rocce vengono raffinate con acqua e solventi e reagenti, come l’acido solforico, per estrarre i prodotti puri. Ogni tonnellata di terre rare richiede 200 metri cubi di acqua. E i residui delle lavorazioni hanno un alto contenuto tossico o radioattivo.

Il litio, invece, è prodotto come carbonato dall’essiccazione di saline che si trovano in buona parte nel triangolo andino tra Bolivia, Cile e Argentina. Si perfora un pozzo per estrarre una salamoia di sale, che viene lasciata essiccare per 12-18 mesi. In alternativa, si produce alla vecchia maniera, cioè in miniera. Anche dal punto di vista geopolitico, non ci troviamo davanti ad un cambio radicale, ma solo geografico.

Pur avendo riserve disperse in diverse regioni, molti di questi metalli sono prodotti in pochi paesi (in pratica dove l’attività di estrazione viene ancora svolta con invasività e a minor costo). Per inteso, la Cina è di gran lunga il paese da cui stiamo aumentando la dipendenza, con una rilevanza del 70 percento delle produzioni di alcuni metalli chiave e il 90 percento delle loro lavorazioni. Ad esempio, le terre rare sono prodotte per 120 mila tonnellate in Cina (la città mineraria di Baotou sembra la scenografia di Blade Runner), mentre negli Stati Uniti la produzione è appena di 15 mila tonnellate. Il cobalto è invece prodotto per due terzi in miniere a cielo aperto (con un diffuso uso di lavoratori – bambini) in Congo DRC, per poi essere ancora lavorato quasi interamente in Cina. Il litio è prodotto per il 90 percento in Cile, Argentina, Australia e Cina.

Quanto sono verdi le energie “green”

Ma il volto più antico delle rinnovabili non si limita alla miniera. Infatti, nella fabbricazione degli impianti produttivi troviamo pesanti impronte di combustibili tradizionali. La costruzione dei sistemi di generazione come le pale eoliche o i pannelli solari richiede consumi di carbone, petrolio e gas (ad esempio, nella fusione dell’acciaio o del cemento dei piloni e dei rotori o del vetro e dei polimeri dei pannelli solari). Un parco eolico da 400 MW richiede la posa di 150 turbine, alte 100 metri, e composte da acciaio e cemento. Ogni pala eolica è composta da 260 tonnellate di acciaio, prodotte con la fusione di ferro e di 170 tonnellate di carbon coke. Considerando che nel mondo ci sono 2 milioni di MW di capacità elettrica a carbone, l’eventuale sostituzione di questo parco elettrico con wind farm determinerebbe lo spiazzamento del consumo di carbone nel power con il consumo di carbone nell’acciaio.

E anche le macchine di trasporto di questi impianti verso i siti di produzione non sono elettriche ma sono alimentate da prodotti petroliferi. Le installazioni del wind off-shore hanno una forte somiglianza con le piattaforme petrolifere e fanno largo uso di speciali imbarcazioni a tradizionale motore a combustione.

Un ulteriore fattore di alleanza implicita tra il mondo nuovo e le vecchie tradizioni deriva dal connubio tra fossili e rinnovabili in fase di produzione elettrica. Infatti, il back up durante le fasi di bonaccia o buio è in buona parte assicurata da fonti di produzione elettrica tradizionali che danno continuità di generazione per l’80-90 percento delle ore di consumo in cui le rinnovabili sono spente. Di fatto le rinnovabili, in assenza di una tecnologia efficace per lo stoccaggio, sono la fonte elettrica ideale per il mezzogiorno e per il tramonto, quando sale il vento. Ma non sono utili in tutte le altre ore in cui si realizzano i consumi, compreso di notte quando, presumibilmente, saranno ricaricate gran parte delle auto elettriche.

A questi fattori si aggiunge anche la dispersione e la moltiplicazione di tanti piccoli siti produttivi che deriva dalla bassa densità di potenza delle rinnovabili. Più materiali, più reti, e più elettronica non è la ricetta ideale per ottimizzare le economie di scala e ridurre gli impatti emissivi lungo la catena di produzione. Per questo le fonti rinnovabili sono realmente “green” solo nella fase di generazione elettrica. Ma sono piuttosto fossili e decisamente minerarie in tutte le attività a monte. Lungo l’intero ciclo di vita, possono emettere carbonio a volte in misura maggiore delle fonti che intendono spiazzare. Un gap che può essere colmato solo prevedendo un prolungato ciclo di vita di questi asset e il cumulo del beneficio ambientale durante il ciclo di generazione. Un vero calcolo netto del costo/risparmio, in termini di emissione di tutti i fattori descritti, non è disponibile.

Un sistema di fatto ibrido e condiviso

Certo è che l’idea che la transizione energetica sia una lotta tra il bene e il male, tra modernismo e oscurantismo, è quanto di più sbagliato si possa immaginare. Stiamo soltanto spostando le emissioni da una stanza all’altra, ampliando alcune esternalità a monte della catena di generazione e intensificando l’utilizzo della litosfera. Lo facciamo in Cina, in Cile e in Congo, e in futuro in Russia. Non pare neanche un grande progresso dal punto di vista geopolitico.

È quindi evidente che quello che viene descritto come un antagonismo è invece un sistema molto più ibrido e condiviso. La rivoluzione verde non ha i connotati del cambiamento radicale, ma rappresenta solo una forma diversa di dipendere da risorse estrattive, emissioni, combustioni e relazioni geopolitiche. Un miglioramento – laddove possibile – delle forme attuali di utilizzo ma anche il proseguire della dipendenza dalle industrie più classiche che rappresentano la spina dorsale del nostro sistema economico e produttivo. E, paradossalmente, tutti gli scenari di drastiche riduzioni della produzione o dei consumi di fonti fossili avrebbero in primis una vittima indesiderata: la stessa crescita delle rinnovabili, che vedrebbe aumentare in maniera rilevante i propri costi di produzione.

Come nella favola di Esopo, lo scorpione ha bisogno della rana su cui è appoggiato per attraversare il fiume. Pena l’annegamento di entrambi. Oggi il verde è il colore favorito da tutti gli stilisti. Ma guardando bene, tra le pieghe dei tessuti, emergono ben visibili tante tonalità di nero.

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