L’importanza di chiamarsi Champagne e Prosecco. I signori delle bollicine respingono gli attacchi a storia e identità

Il mondo dello Champagne e quello del Prosecco hanno da sempre avuto una prerogativa, quella di essere orgogliosamente divisi dalla diversa dimensione delle relative identità. Il primo difensore di una tradizione elitaria e votata all’esclusività, il secondo paladino di una democratizzazione delle bollicine di qualità, rese accessibili ad un mercato sempre più ampio di appassionati.

Questi due universi storicamente paralleli e distanti, anche geograficamente, negli ultimi mesi si trovano inaspettatamente a convergere, in una contingenza che vede gli sparkling wines e la loro tradizione più antica sotto attacco.

Un conflitto che si gioca sulle parole che come carte in tavola vengono rimescolate nell’uso e nella significazione: parliamo di Champagne, Spumante, Prosecco e Prošek, definizioni che se male impiegate possono diventare pericolose.

L’utilizzo e la combinazione di poche lettere in modi più o meno leciti possono ledere diritti acquisiti e quote di mercato importanti, prendendosi beffa di consumatori facili a cedere alle fascinazioni, un po’ come raccontava Oscar Wilde nel suo “The importance of being Ernest” dove il gioco di parole diventa metafora della strumentalizzazione delle stesse. 

Ma andiamo per gradi. Il primo casus belli che ha sconvolto il mondo sparkling risale al 2 luglio scorso, quando Valdimir Putin, avvezzo ai coup de theatre, ha varato una legge a dir poco discutibile, secondo alcuni osservatori come conseguenza di un’escalation di tensioni nei rapporti con l’Unione Europea, secondo altri come strategia per favorire la crescita del mercato interno.

In base alle nuove disposizioni può chiamarsi Shampanoskoe, шампанское in cirillico, ovvero Champagne, solo il vino prodotto in Russia con metodo champenoise.

Questo significa che il Cremlino ha vietato nel proprio territorio il commercio di vini provenienti dall’estero con la dicitura Champagne in etichetta, autorizzando solo quelli recanti la dicitura spumanti.

Che sia o meno una scelta dettata da motivazioni politiche più che commerciali, la reazione della Francia non poteva che essere netta, considerato che non è in gioco solo l’orgoglio nazionale ma la difesa di una tradizione centenaria.

Il termine Champagne infatti non nasce come nome di fantasia, ma è saldamente ancorato alla omonima regione in cui storicamente si produce la bollicina più famosa al mondo, un territorio che, per tutelare la propria produzione vitivinicola di eccellenza, ha creato nel 1927 una specifica denominazione di origine controllata (AOC) rappresentata da una dicitura, protetta in più di 120 paesi, incedibile e non negoziabile perché espressione della sua essenza.

Ecco perché il primo effetto della scelta di Putin è stata una sospensione da parte dei francesi delle esportazioni di Moët & Chandon, Veuve Clicquot e Dom Pérignon, opzione abbracciata anche da altri produttori per evitare di vedersi comminate sanzioni a causa di potenziali etichette fuori legge.

A trarne vantaggio le aziende vitivinicole della Crimea, patria dello spumante russo, che negli ultimi anni hanno visto crescere nel proprio territorio gli investimenti sia a livello di infrastrutture che per il settore agricolo, con una espansione delle terre coltivate a viti che dovrebbe raggiungere i 700 ettari entro il 2024. Queste realtà, a causa della pandemia, hanno subito un crollo della produzione di bollicine, con una contrazione del 33%, condizione che avrebbe spinto Putin ad optare per una stretta alle importazioni a vantaggio delle alternative nazionali. 

L’embargo dei francesi da poche settimane fa è rientrato, ma restano gli appelli dei produttori alla diplomazia europea per cercare di far modificare una legge scandalo inaccettabile.   

Diplomazia Europea che è sotto assedio anche per un altro atto di lesa maestà, quello che si è consumato nel momento in cui la Croazia ha presentato domanda per il riconoscimento a livello comunitario della menzione tradizionale del Prošek, un vino da dessert prodotto nella zona meridionale della Dalmazia.

La levata di scudi dell’Italia è stata pressoché immediata, considerato che il Prosecco, uno dei simboli del Made in Italy vitivinicolo, non può correre il rischio di essere confuso sui mercati, specie quelli internazionali, con qualcosa di assolutamente diverso, appartenente ad una tradizione fisicamente lontana ed estranea a quella del nostro paese.

Come per lo Champagne, il Prosecco è espressione di un territorio e la protezione dell’Unione Europea dovrebbe scongiurare fenomeni di usurpazione, in particolare quelli in cui si potrebbe incorrere per un sottile gioco di parole vicino all’omonimia.

E le cifre in ballo sono considerevoli: oggi il Prosecco tra gli spumanti è il più venduto al mondo, ha visto le esportazioni crescere del 35% nei primi sei mesi del 2021, con un giro d’affari di circa un miliardo di euro ma nonostante la sua affermazione commerciale il rischio di confusione per i consumatori, spesso distratti da innumerevoli etichette, resta alto insieme al rischio di perdita di quote di mercato.

Italiani e francesi si trovano così ideologicamente alleati nella battaglia del riconoscimento e della tutela delle proprie denominazioni più famose in fatto di bollicine e ancora una volta il ruolo della Comunità Europea torna ad essere centrale per scongiurare incidenti più o meno diplomatici che vadano a ledere punte di diamante delle rispettive economie.

Informazioni su Angela Petroccione 20 Articoli
Giornalista, esperta di comunicazione, muove i primi passi nel settore assicurativo per passare a quello politico istituzionale e al farmaceutico. La sua passione negli anni la porta a dedicarsi alla consulenza di marketing nel settore vinicolo. Racconta dei suoi viaggi e degustazioni in giro per l’Italia nel suo blog Visvino.

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