Nell’era della post-verità l’Io è al centro e produce rabbia sociale, complottismo e voglia di “branco”

La psicologia umana è in grado di inventarsi scappatoie, di raccontarsi storie, di raccontarsi di essere comunque padrone delle proprie esistenze. E oggi avviene soprattutto tramite l’esercizio smodato dell’espressività, tesa a segnalare la propria presenza, denunciare con rancore e rabbia l’ordine del mondo. La “post-verità” è stata erroneamente additata come una conseguenza del “capitalismo della sorveglianza”, un sottoprodotto della nuova economia delle aziende del web, ma in realtà non è altro che l’indicatore della perdita dei nostri punti di riferimento. Si è prodotta una divisione, non tra “vero” e “falso”, ma tra “io” e “noi”, la post-verità, la disinformazione, le fake news, sono tutte conseguenze della spaccatura tra le particolarità individualistiche e la società, sono l’affermazione delle prime contro il bene comune.

L’espressività (anche corporea = violenza) diventa quindi uno strumento di conforto, quasi di catarsi, il raccontarsi come soggetto unico, segnalare le proprie esperienze individuali a significare la non accettazione delle logiche di spossessamento delle risorse dell’essere umano, sia corpo che mente, in una incessante inflazione dell’ego, un narcisismo diffuso: “Benvenuto nel TUO mondo!“, titolava Time.

In questo quadro il referente significativo di molti è semplicemente l’“io”, la fonte primaria, e spesso definitiva, della “verità”. L’“i” dei prodotti Apple diventa il nuovo topos dell’epoca, illudendoci che finalmente saremo al centro di tutto. Le dinamiche sociali ed economiche capitalistiche hanno spinto progressivamente l’individuo a fare affidamento solo su sé stesso e sulla propria capacità di “farcela”, se non ce la fai è colpa tua, non della società che nulla ti deve, devi essere tu a farti valere, fino alla costruzione della tua stessa realtà.

Dopo i primi segni di insofferenza, il ‘68, i movimenti sociali, venne la stretta degli anni Settanta e Ottanta, con la Thatcher che dava il segnale: “There is no alternative”, o si accettava a testa bassa nella prospettiva di trarne vantaggio, o ci si allontanava dal campo di gioco. L’epoca del rigore e dell’austerità in realtà si rivelò l’inizio di una globalizzazione sfrenata e la standardizzazione dei metodi di governo sotto il dogma liberista. Era il voltafaccia della politica e il discredito della parola pubblica. In questo quadro l’unica possibilità era dedicarsi al culto della performance, diventare imprenditori di sé stessi, concentrarsi sulla propria vita individuale rinunciando agli interessi collettivi

Il ripiegamento su se stessi e sulla propria persona genera l’avvento di un narcisismo di massa in un bisogno di compensazione, e la graduale perdita dell’orizzonte collettivo. La conseguenza è un progressivo isolamento dell’individuo dalla società.


L’emersione dei clan

Le nuove tecnologie si pensava che avrebbero favorito una maggiore trasparenza e quindi un più efficace controllo dei politici “delegati” col voto, una maggiore possibilità di incidere sulla società e la vita politica. In realtà si è realizzato un tribunale perenne capace di dare e togliere voce ai propri “delegati” con un semplice clic dal divano di casa, una nuova forma di tecnocrazia, la politica “usa e getta”.

Ecco quindi che in contrapposizione l’essere umano, fondamentalmente un essere sociale, ha costruito forme di raggruppamento di diversa natura, capaci di offrire spazi di solidarietà e difendere interessi specifici, ma non più collettivi. Nella costante distruzione della solidarietà sociale l’individuo, sempre più isolato, è emerso, grazie alle nuove tecnologie, in gruppi ristretti che si coalizzano e cooperano per i loro interessi specifici. Spesso in contrapposizione con gli interessi di altri gruppi, e quindi dell’intera società. Le dinamiche sociali hanno favorito l’emersione delle logiche da branco, di veri e propri “clan”.

Venute meno le principali istanze capaci di convogliare il risentimento collettivo verso percorsi virtuosi, l’ondata di conflitto si manifesta negli scontri di piazza, nel disagio delle periferie urbane, nelle forme di emarginazione sociale, fino alla violenza e al terrorismo: quando la parola non basta occorre far parlare il corpo. In assenza di elementi capaci di produrre un progetto, un’idea del mondo, la rabbia sociale diviene forza propulsiva gestita come capitale e bene spendibile, accumulata in vere e proprie “banche del risentimento”: i partiti “anti-sistema” (Peter Sloterdijk, Ira e tempo).

In questa condizione si intrecciano la rabbia sociale, derivante dalla consapevolezza dell’indifferenza della società e delle élite nei confronti del popolo, lo sgretolamento del principio di autorità (ad esempio gli attacchi, anche fisici, ai medici) in quanto ormai si è consapevoli del fatto che le istituzioni non hanno più il compito di garantire la coesione della comunità e quindi come scopo il bene comune, quanto piuttosto la perpetuazione delle élite dominanti, e una rinnovata autonomia dettata dalla possibilità di accedere direttamente, senza intermediari (almeno percepiti), alle informazioni.

Da cui i fenomeni caratterizzanti la nuova società: il rifiuto dell’autorità, la messa in discussione della parola dei professori, degli scienziati, dei medici, fino anche all’attacco fisico. L’affermazione del sé implica necessariamente lo svilire l’altro. Perché la sovrastima del proprio io porta a imporre il proprio stile di vita su tutti gli altrui, per cui chi vive diversamente, chi auspica un diverso modo di vivere rispetto al mio, è semplicemente un nemico da abbattere perché mette in discussione la mia sfera individuale.

Il complottismo è la risposta più coerente alla presa di coscienza che per secoli siamo rimasti a guardare lo spossessamento delle nostre risorse, prima fisiche e poi informative, a favore delle élite dominanti, per secoli ci siamo fatti ingannare e non abbiamo fatto nulla per cambiare le cose. Adesso è il momento per ribaltare il tavolo, per abiurare quel patto sociale che le élite non hanno rispettato, e quindi per vivere la propria esistenza solo e soltanto seguendo i propri credo. Da cui la nuova fabbrica delle convinzioni che gira a pieno regime per sbugiardare le menzogne delle élite e per deridere chi continua a farsi ingannare, per stanare ogni abuso commesso dall’ordine dominante, smascherare ogni ingranaggio che regola l’ordine del mondo. Una lotta tra gli scettici iper-perspicaci e i conformisti docili che, in ultima analisi, porta allo sradicamento di ogni forma di possibile coesione e sublima nella cultura dell’umiliazione di massa online: un linciaggio virtuale vero e proprio che si compiace dell’infelicità altrui, glorifica gli abusatori ergendoli a eroi, e crea coesione nel gruppo, nel clan. Per questo è talvolta attizzato proprio dai partiti politici anti-sistema.

Una conseguenza di tutto ciò è l’indignazione costante contro le nuove tecnologie e in particolare i social media, additati come i responsabili dello stato attuale. Ovviamente internet, come media, è perfettamente inserito nella società moderna e quindi è concausa dei problemi sociali, come allo stesso modo le aziende tech sono agenti del capitalismo e quindi tendono, come tutte le altre aziende, a massimizzare i profitti.

Però occorre essere onesti e notare che la copertura dei media tradizionali è esageratamente negativa verso le aziende del web, fenomeno probabilmente dovuto al fatto che queste aziende hanno sottratto gran parte dei profitti pubblicitari ai media tradizionali. Da cui una sorta di guerra che porta i media tradizionali a coprire i social attraverso il filtro “techlash” che utilizza metafore iperboliche per rendere i social media più spaventosi di quanto non siano in realtà.

Storie di marchi e di loghi

Christopher Lasch (L’io minimo. Sopravvivenza psichica in tempi difficili) evidenzia che la nuova condizione umana, una cultura del narcisismo, la ricerca del sé, l’egoismo, l’indifferenza verso il bene dell’umanità, è la conseguenza dello sradicamento prodotto dalla moderna società industriale. In un’epoca nella quale sono necessari poteri globali per fronteggiare la prospettiva di un declino economico e la fine della speranza in un’azione politica capace di rendere più umana la società industriale, il mondo appare popolato da individui dediti alla mera sopravvivenza. L’identità personale implica una storia personale, amici, famiglia, senso di appartenenza ad un luogo, ma con l’accentuarsi della sensazione di sradicamento l’io si contrae fino a diventare “minimo”, un semplice nucleo difensivo assediato. Si tratta di una difesa contro la radicale trasformazione della società industriale.

Questa trasformazione trova le sue radici quando le grandi aziende si sono rese conto che i consumatori, ormai subissati (il calcolo vede un consumatore medio esposto a circa 3000 pubblicità al giorno) da pubblicità tutte più o meno uguali, erano diventati impermeabili e sempre più difficilmente manipolabili. Con la nascita dei nuovi media, l’accesso libero alle informazioni, le pubblicità hanno perso il loro potere, la loro credibilità. È quello che accadde alla Nike quando fecero il giro del mondo le immagini dei bambini pakistani curvi su palloni da calcio col logo Nike. I consumatori si resero conto che dietro un marchio c’erano delle storie, ma erano brutte storie, di sfruttamento. Per questo progressivamente i guru delle aziende si resero conto che occorreva un cambio epocale. Le aziende non avrebbero più prodotto marchi, ma storie, storie edificanti. Alle storie di sfruttamento della manodopera avrebbero contrapposto una vera e propria contronarrazione.

Le storie, le narrazioni, ci permettono di mentire a noi stessi e soddisfano i nostri desideri, anche quelli contraddittori (dal caffè decaffeinato al cambiamento climatico risolto senza fare nulla o quasi). I consumatori hanno bisogno di credere, e le aziende oggi riescono a immergerli in un universo narrativo creando una storia non solo credibile, ma anche personalizzata, che si adatta ad ognuno di noi, una narrazione che propone un modello di comportamento integrato. Le narrazioni oggi, quelle commerciali, quelle politiche, si rivolgono agli individui fornendo loro le scene e i costumi adatti al ruolo che ognuno di noi dentro di sé ritiene di dover avere nel mondo.

Homo homini lupus

L’attuale rivoluzione tecnologica e scientifica non implica che gli individui possano essere manipolati da algoritmi e telecamere e così perdere la loro “autenticità”, bensì che la stessa autenticità sia niente altro che un mito. La gente ha paura di essere intrappolata in una scatola, ma in realtà è già intrappolata in una scatola, il cervello, che a sua volta è intrappolato in un’altra scatola, il corpo, a sua volta intrappolato in un’altra scatola: la società umana con le sue narrazioni.
Le nuove teorie scientifiche ci dicono che la mente umana non è mai libera da condizionamenti, non esiste alcuna autenticità che attende di essere liberata, e sicuramente non dobbiamo essere “liberati” da internet o dai social cattivi.

Noi esseri umani abbiamo conquistato il mondo grazie alla nostra capacità di astrazione, di immaginazione, di creare storie fittizie e di crederci. Non è una novità oppure un’invenzione di Google o Facebook. Con l’avvento delle nuove tecnologie non si è avuta una modifica sostanziale, nel senso che oggi è possibile condizionare le persone mentre ieri non lo era, la differenza sta nel fatto che questo processo si è esteriorizzato, trasferito in parte sugli schermi dei computer e degli smartphone, quindi è più visibile, forse anche più efficace. Ma non è niente di davvero nuovo.

Alla fine della seconda guerra mondiale il sociologo David Riesman, nel saggio La folla solitaria, constatò la metamorfosi della società americana, il passaggio da un’influenza limitata alla famiglia e una ristretta cerchia di persone (gli influencer dell’epoca) ad un’influenza più estesa, e quindi all’estensione della propria sfera personale anche aldilà dei limiti familiari. Complice di tutto ciò era lo sviluppo dell’urbanizzazione, l’avvento della società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa. In breve l’apertura a centri di interessi diversi e ulteriori.

Negli anni 2000 questo fenomeno si caratterizza per l’influenza derivante da molteplici individui. Ognuno ambisce a far trionfare un proprio stile, a far dominare la propria opinione, la propria visione del mondo, in una guerra di tutti contro tutti. Non si tratta solo dell’Homo homini lupus hobbesiano (Hobbes, De cive), a primeggiare non è più tanto la violenza fisica (anche se talvolta non manca) ma della soggettività di ognuno che pretende diventi canone universale al quale gli altri devono adattarsi. Le esigenze particolaristiche richiedono l’approvazione della collettività, la quale, però, rischia di incrinarsi sotto la spinta di un proliferare illimitato di particolarismi, di soggettività che imboccano la strada della pretesa imposta con la forza, un vero e proprio particolarismo autoritario (Eric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune).

E così possiamo osservare milioni di individui che si creano la propria personale narrazione – ad esempio condividendo foto delle vacanze con panorami spettacolari e viste mozzafiato, ma tacendo delle ore trascorse imbottigliati nel traffico, del tempo perso in camera per aver ingerito cibo andato a male e il litigio con il direttore dell’albergo per la camera che non assomiglia per niente a quella vista sul sito web -. Sono tutte narrazioni, milioni, miliardi di narrazioni particolaristiche che nascono in base al postulato secondo cui ognuno di noi meriterebbe un’attenzione specifica riguardo le tante iniquità sofferte.

La personalizzazione spinta della tecnologia porta a sovrapporre alla nostra percezione soggettiva delle cose una realtà ormai diventata personalizzata, un modello economico che ci invita a adottare condotte conformi all’identità che ci viene algoritmicamente attribuita (John Cheney-Lippold, We are data), in un bombardamento di informazioni che rafforzano la nostra identità, l’esclusione di apporti esterni a vantaggio di una verità unica individualizzata, e un progressivo regresso della volontà di agire (Peter Sloterdijk, Sfere).

Una volta vivevamo in base a grandi narrazioni, talvolta imposte con la forza, ma pur sempre inclusive. Narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a Tolstoj, da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni frutto dell’esperienza accumulata. Oggi, invece, possiamo avere ognuno la nostra narrazione, individualizzata, personalizzata, fatta apposta per noi sulla base del nostro essere, della nostra identità. Narrazioni che, però, disegnano i comportamenti, orientano i flussi di emozioni, costruiscono ingranaggi narrativi secondo i quali gli individui sono portati a identificarsi in certi modelli e a conformarsi a certi standard (Salmon, Storytelling, la fabbrica delle storie).

Se un tempo era l’ambiente a fungere da protezione dell’individuo, a delimitare una zona di benessere contro gli invasori, a proteggerci e darci conforto, oggi la tecnologia ha determinato la fuoriuscita della vita privata dall’ambito domestico per estendersi agli spazi pubblici. Come la privacy si evolve in “data protection”, così gli individui creano uno spazio tutto loro, una sfera, che li isola da tutto ciò che pare estraneo o inappropriato e si evolvono non più insieme agli altri nella società, ma come traiettorie distinte e adattate alla loro identità. Ma siccome queste sfere si sono espanse a occupare spazi sociali, quando vengono in collisione tra loro si scatena la lotta per far prevalere la legge del singolo su quella comune. Un mondo atomizzato nel quale ci si preoccupa di raggiungere il proprio scopo, la massificazione dell’io senza preoccuparsi dell’andamento generale delle cose.

La nuova società, così progressivamente strutturata dall’economia capitalistica e competitiva, è caratterizzata da una dimensione fondamentalmente precaria e una serie di collisioni rapide e fugaci. Ed è il mondo economico, responsabile dell’instaurazione del nuovo ethos, che si preoccupa di fornire gli strumenti per la liberazione dalle limitazioni, per la realizzazione delle proprie identità individuali, per la soddisfazione dei propri personali desideri. Tali strumenti si sostanziano per lo più in forme di valutazione dei servizi e poi degli stessi esseri umani. Iniziò Uber con i voti dati ai conducenti, poi i credit score si sono estesi, fino a diventare quasi la regola nelle nostre società.

Per contrastare il rapido declino dei servizi pubblici, il regresso del principio di solidarietà, la “nuova economia” ci fornisce strumenti capaci di convincerci di aver raggiunto la massima autonomia, il dominio sulle nostre vite. Il fallimento dell’individualismo liberale che non è stato capace di offrire processi di compensazione alle discriminazioni sociali innescate dal liberismo, dalla ricerca incessante di profitto, dalla competizione sfrenata, trova la sua compensazione nella fornitura di tecnologie capaci – almeno in teoria – di far trionfare le proprie identità sugli altri (a scapito degli altri). Il segnale è chiaro, d’ora in poi gli individui dovranno contare esclusivamente su se stessi. E in una tale condizione gli “altri” spesso sono visti come ostacoli, non come propri simili.

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