La mafia e il tradimento secondo Marco Bellocchio: il Buscetta di Favino

La libertà dell’eros contro il potere distruttivo del comandare. La spinta a salvarsi, governata dal desiderio, contro i tentacoli di thanatos. In concorso al 72esimo Festival di Cannes, undici candidature ai Nastri d’argento e quattro ai Globi d’oro, “Il traditore”, il nuovo film di Marco Bellocchio, cinquantaquattro anni dopo l’esordio con “I pugni in tasca”, vive di dettagli e sfumature che trovano, nei momenti più riusciti, forza evocativa nella composizione dell’immagine. Un punto di vista in armonia con il pensiero di Amos Oz e del suo romanzo “Giuda”: solo chi tradisce, chi s’allontana dalle convenzioni della comunità cui appartiene, è capace di cambiare sé stesso e il mondo.

Tracce psicoanalitiche, riferimenti onirici e romanzeschi, chiavi di letture sotterranee, presenti tra le pieghe della narrazione, animano un’opera che riscostruisce un pezzo di Storia italiana. In primo piano la scelta di Tommaso Buscetta di collaborare con Giovanni Falcone (impersonato da un ruvido Fausto Russo Alesi) e di ricostruire per la prima volta l’organigramma di Cosa Nostra. Un Buscetta incarnato da un attore, Pierfrancesco Favino, che utilizza la mimesi (nel linguaggio e nella fisicità) e il trucco per entrare dentro l’interiorità e trasmettere l’anima di un personaggio rielaborato sul grande schermo con lucidità.

La sceneggiatura – firmata dal regista (autore del soggetto in seguito alla sollecitazione del produttore Beppe Caschetto) con Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo, in collaborazione con i giornalisti Francesco La Licata e Saverio Lodato (consulente storico) – e soprattutto la regia di Bellocchio e il montaggio di Francesca Calvelli, che donano dinamicità e ritmo, evitano quasi sempre le trappole del già visto, nonostante l’apporto di materiale televisivo e l’intento esplicativo in qualche sequenza. Il campo e controcampo Buscetta-Badalamenti (interpretato quest’ultimo da Giovanni Calcagno), la scena chiave nella quale il protagonista dialoga a distanza con la moglie brasiliana Cristina (l’elegante Maria Fernanda Cândido) e lei accende il suo desiderio, i riflessi nei vetri e il buio predominante, nella fotografia di Vladan Radovic, sono lì a testimoniare l’originalità dello sguardo. Uno sguardo in simbiosi con il montaggio delle attrazioni alla Ėjzenštejn, pur in un film che aderisce a un taglio più narrativo rispetto alla consueta filmografia del cineasta nato a Bobbio nel 1939, Leone d’oro alla carriera nel 2011.

Tuttavia, basta osservare la combinazione d’inventiva e di fedeltà processuale che attraversa la rievocazione del maxiprocesso per comprendere il tasso immaginifico della macchina da presa. Elementi creativi nei confronti che contrappongono il pentito e i mafiosi e nei discorsi paradossali (persino filosofici) del boss Liggio, affidato a Vincenzo Pirrotta. In un siciliano sottratto allo stereotipo linguistico, emerge un’idea del mondo che mescola il grottesco e l’impostura, la comicità e la tragedia, l’odio e la vendetta, la giustizia e la sua imperfetta rappresentazione.

In un cast ben diretto, spiccano Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno) e Fabrizio Ferrracane (Pippo Calò). Se il primo non rinuncia al dialetto palermitano per irridere e attaccare, il secondo cela dietro i suoi tentennamenti e le sue pacate giustificazioni la sostanza crudele della realtà, avendo tradito Buscetta e ucciso uno dei figli secondo le rivelazioni del mafioso Salvatore Cancemi (l’attore Ludovico Caldarera).

Le musiche di Nicola Piovani e la dialettica che investe cinepresa e note, come il “Va’ pensiero” verdiano al momento della sentenza, risultano d’effetto in parallelo ai cambiamenti d’ambiente: dalla Sicilia al Brasile e agli Stati Uniti, senza perdere mai di vista Palermo come luogo delle illusioni destinate a infrangersi. Con la scenografia di Andrea Castorina e i costumi di Daria Calvelli, questa coproduzione Italia-Francia-Germania-Brasile, realizzata da IBC movie, Kavac Film e Rai Cinema, assicura un impasto serrato di ricostruzione storica, intuizioni, richiami all’inconscio e dilemmi insolubili. Rebus figli di un film che parte con un ballo che, dietro la vitalità, nasconde il profilo di thanatos e termina con la morte di un uomo, il cui mistero rimane intangibile. Un tocco esistenziale coerente con il cinema introspettivo di Bellocchio, che rimanda alla solitudine di ogni essere umano, carnefice o vittima, sulla terra.

I tanti volti che si avvicendano – dal Totò Riina di Nicola Calì al giudice Giordano di Bruno Cariello, dallo Scarpuzzedda di Alessio Praticò al capo scorta di Pier Giorgio Bellocchio, dal De Gennaro di Rosario Palazzolo alla Ninetta Bagarella di Nunzia Lo Presti, dall’avvocato Coppi di Alberto Storti all’Andreotti di Giuseppe di Marca – alimentano un girotondo di maschere e incubi, strappi di luce e lacerazioni, frammenti di coscienza e visioni di un mondo sanguinario e perduto.

Anche se nei titoli di coda ritroviamo l’autentico ex “boss dei due mondi” cantare, riproducendo una struggente interpretazione già inserita nella finzione prima dell’epilogo, l’autore dei discussi ma apprezzati “La Cina è vicina”, “L’ora di religione”, “Vincere” e “Buongiorno, notte”, ovvero il regista che ha liberato seppure in sogno l’Aldo Moro di Roberto Herlitzka, suggerisce che ogni tradimento e ribellione, da un clan familiare, da una patria, da una tradizione, persino dalla Storia e  dai suoi effetti a volte nefasti, come l’assassinio del presidente Dc, è un salto nel buio che contiene le potenzialità di una nuova visione. Il seme di un viaggio inedito oltre le gabbie del reale.

Marco Olivieri
Informazioni su Marco Olivieri 26 Articoli
Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

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