Addio petrodollari, l’Arabia Saudita fa saltare l’accordo per vendere il petrolio in dollari

L’Arabia Saudita ha deciso di chiudere l’accordo a lungo termine, firmato l’8 giugno 1974, che impegnava il Paese a vendere il proprio petrolio in dollari americani in cambio dell’impegno statunitense a garantire la sicurezza dell’alleato nello scacchiere mediorientale.


Una notizia che è al tempo stesso lo specchio di una crisi profonda e globale già in atto e una potenziale fonte di ulteriori criticità in un sistema monetario e geopolitico internazionale sempre più instabile. Ricordiamo prima di tutto il contesto all’interno del quale quell’accordo emerse.

Il sistema monetario internazionale, fondato sul dollaro con la conferenza monetaria internazionale di Bretton Woods nel 1944, era stato appena scosso dalla fine della convertibilità del dollaro in oro, sulla quale si reggeva l’intero sistema di cambi fissi. Nell’agosto del 1971 Nixon mise fine all’emorragia di oro dagli Stati Uniti (dovuta proprio all’impegno alla convertibilità) e venne adottato un regime di cambi flessibili, in cui sono i mercati finanziari (ossia la forza delle rispettive economie) che ogni giorno stabiliscono il valore relativo delle monete nel mondo. Il dollaro cessò quindi di essere de jure la moneta pivot del sistema economico e finanziario internazionale, ma lo divenne de facto, grazie alla forza della propria economia.

La decisione giunse però nel momento in cui la guerra dello Yom Kippur fra Israele ed Egitto, nell’autunno del 1973, convinse i Paesi produttori di petrolio, riuniti nell’OPEC, a rialzare congiuntamente il prezzo del greggio, che aumentò da 3 a 12 dollari al barile nel giro di pochi mesi. Con conseguenze drammatiche sui Paesi occidentali, ad elevato grado di industrializzazione e quindi fortemente dipendenti dall’energia fossile.

Non solo, si configurò immediatamente una situazione potenzialmente insostenibile, dovuta ad un eccesso di surplus di bilancia dei pagamenti nei paesi esportatori di petrolio, che però non avevano una struttura produttiva e sociale in grado di assorbire per la crescita interna gli enormi profitti derivanti dalla vendita del petrolio, e al deficit di bilancia dei pagamenti nei paesi industrializzati, che si trovarono in molti casi ad estinguere le proprie riserve in valuta estera per pagare il conto dell’energia e ricorrere all’assistenza finanziaria del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Fu allora che il Managing Director del FMI, Johannes Witteveen, ebbe l’idea di utilizzare il Fondo per fungere da camera di compensazione fra surplus e deficit di bilancia dei pagamenti, offrendosi di canalizzare tali flussi attraverso l’intermediazione del FMI ed utilizzando i Diritti Speciali di Prelievo (DSP, la ‘moneta’ del FMI, che era appena stata creata nel 1969) per denominare le bollette petrolifere. I DSP sono infatti una moneta definita multi-currency, ossia una sorta di paniere in cui sono rappresentate le principali valute del mondo (all’epoca erano 19, oggi solo 5: dollaro, euro, yuan, yen e sterlina).

L’amministrazione americana, guidata da Kissinger al ministero degli Esteri, preferì sottoscrivere un accordo bilaterale con l’Arabia Saudita, impegnandosi in cambio alla sua sicurezza sullo scacchiere Medio-Orientale. Il FMI fu messo da parte e gli alleati europei convinti che l’egemonia del dollaro e degli USA sarebbe stata funzionale anche a difendere i loro interessi.

Oggi, cinquant’anni dopo, quel mondo è profondamente cambiato. L’egemonia del dollaro e degli USA è messa in discussione dalla crescita esponenziale della Cina e dall’emergere di potenze con ambizioni regionali quali la stessa Arabia Saudita e le monete digitali permettono di sperimentare nuove forme di pagamento. Non a caso, solo pochi giorni prima di sospendere l’accordo a vendere il petrolio in dollari (che porterà a poter scegliere di volta in volta la valuta di fatturazione), l’Arabia Saudita aveva annunciato di prendere parte all’esperimento mBridge, guidato dalla Cina: una piattaforma di pagamenti digitali alla quale aderiscono anche Tailandia ed Hong Kong.

Il mondo caratterizzato dall’egemonia globale del dollaro e degli USA è finito. Il problema è se gli Stati Uniti sapranno prenderne atto, cercando di guidare un processo ordinato verso un sistema di governance economica e politica multilaterale o se faranno subire al mondo intero gli effetti di un’uscita disordinata dal vecchio sistema, basata sui rapporti di forza e sugli inevitabili conflitti che ciò comporta.

In questo senso, un crescente ruolo internazionale dell’euro sarebbe cruciale. Ma dipende dal completamento del mercato dei capitali in Europa e dalla disponibilità a cambiare orientamento ideologico, emettendo debito congiunto europeo in maniera massiccia per fornire al mondo un safe-asset alternativo al Treasury bond statunitense. Una direzione che, al momento, non ci sembra coerente con il vento che tira nell’Unione Europea.

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