Come essere verdi senza precipitare nell’utopia della decrescita infelice? Come essere per l’ambiente senza cadere nella trappola di un -ismo? Come coltivare l’ecologia senza diventare illogici? Non abitiamo nel sogno di Icaro, non voliamo con le ali di cera, non pratichiamo la discussione fine a se stessa, qui siamo nel campo dell’Homo Faber, dove c’è un problema reale si studia una soluzione efficace.
Entro il 2050 la Terra sarà popolata da 10 miliardi di persone, tutte aspirano al benessere, a una vita dignitosa, alla disponibilità dei beni primari, cibo e energia prima di tutto.
C’è una teoria à la page che sostiene che questa crescita porti a una ineludibile politica della decrescita sul piano dei consumi, della produzione e perfino della demografia, attraverso uno stretto controllo delle nascite. Abbiamo delle semplici domande sul taccuino: chi decide come deve cambiare il modello di produzione e distribuzione della ricchezza sulla Terra? Chi rinuncia al proprio modello di sviluppo? Chi dice alla classe media occidentale – perché quello è il target – che deve rinunciare alla sua sempre più precaria agiatezza in nome di una politica neo-malthusiana che finirebbe per colpire gli ultimi e far scivolare molti altri nella povertà? Quale governo mondiale deciderà che cosa coltivare e mangiare? Chi metterà mai nero su bianco quali nazioni possono fare figli e chi no?
Distopia letteraria e realtà
Siamo di fronte a un’idea pericolosa perché conduce inevitabilmente alla ingegnerizzazione della vita stessa. Siamo nel campo della distopia letteraria che si sta facendo realtà, si comincia con la razione di cibo, si finisce con la selezione delle nascite e si realizza così l’incubo di una società come quella descritta da Aldous Huxley in “Brave New World”, un luogo con le emozioni sotto controllo, ridotto a produzione in serie, forgiato dall’eugenetica, dove gli esseri umani sono un prodotto della fabbrica, rilasciati in vita, come il download di un software, secondo quote pianificate dai governi mondiali.
Come vedete, siamo dentro l’illusione della felicità che naturalmente produce il suo contrario, la frase di un protagonista del libro di Huxley: “La popolazione ottima è modellata come un iceberg; otto noni al di sotto della linea d’acqua, un nono sopra”. Quelli sotto affogano. Non sarà l’utopia senza meta a salvare la Terra, ma le azioni concrete di chi può fare, la politica, le istituzioni, l’industria.
Prima di tutto, fare economia circolare è possibile; fin da ora è un tema – non il solo, ma quello più vicino e urgente – ricordato più volte nell’ultima presentazione a Roma del World Energy Outlook, quando Claudio Descalzi, AD di Eni, ha detto che bisogna “crescere organicamente e a basso costo, così da favorire la tecnologia e l’economia circolare”; quando la presidente Emma Marcegaglia ha ricordato come la governance di Eni sia “attenta alla transizione energetica”; quando Fatih Birol, direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia, ha ricordato che l’Africa nel giro di un paio d’anni “diventerà la regione più popolosa del mondo” e avrà bisogno di tutto, a cominciare dal cibo, e dunque userà più fertilizzanti; quando l’ex presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha ricordato che bisogna “consentire un pieno accesso all’energia a un miliardo circa di persone nel mondo che ne sono ancora prive, promuovere nuove politiche industriali capaci di soddisfare la crescente domanda globale di energia, salvaguardando al tempo stesso l’ambiente”.
Non c’è divergenza, bisogna fare. Il settore agroalimentare, la produzione del cibo necessario per la sopravvivenza della specie umana, è responsabile del 37 percento delle emissioni globali di gas serra, il 13 percento proviene dalla deforestazione tropicale, l’11 percento dalla produzione agricola e un ulteriore 13 percento dalla perdita e trasformazione degli alimenti. Dietro questi numeri sono celati molti errori commessi dall’uomo; si possono correggere, ma non possiamo eliminare quello che gli -ismi vedono come un problema: l’esistenza dell’uomo sulla Terra.
Dobbiamo usare meglio le nostre risorse, consumare meno il suolo, rispettare il mare e il suo ciclo naturale. L’essere umano non deve tornare indietro, ma imparare a usare le sue grandi invenzioni e scoperte, la plastica prima di tutto, opera del genio di un italiano, Giulio Natta, premio Nobel per la chimica. La chiave del suo uso è il suo… ri-uso, il suo inserimento nell’economia circolare.
I materiali riciclabili sono più sicuri di un altro materiale di cui non conosciamo il futuro comportamento quando viene abbandonato nell’ecosfera. La concentrazione della popolazione del pianeta nelle aree urbane è un fenomeno inesorabile: dove c’è lavoro, ci sono le grandi migrazioni interne e esterne. Pensate alla Cina, al fenomeno della “popolazione fluttuante”: nel 1978 la popolazione nelle aree urbane era pari a 170 milioni di persone, nel 1990 gli abitanti delle città erano 221 milioni; nel 2003 erano 523 milioni, oggi sono 810 milioni. Dal 1978 a oggi 640 milioni di persone sono migrate dalle aree rurali a quelle urbane. Che cosa è tutto questo? Una ciclopica rivoluzione che ha un impatto globale.
Il cinquanta percento della popolazione mondiale oggi vive in aree urbane, qui si concentra il 70 percento delle emissioni umane di CO2, l’emergenza – la sfida di ogni giorno – è quella delle metropoli, molte hanno subito un processo di deforestazione, sono prive di aree verdi.
Bisogna piantare alberi. Rappresentano uno degli strumenti più accessibili ed efficaci per il raggiungimento dei Sustainable Development Goals (SDGs), fanno bene all’aria, alla temperatura, alla vista, alla vita sociale. E qui entrano in gioco altri elementi, l’urbanistica e l’architettura. Il disegno dell’uomo. L’intelligenza al servizio del benessere di tutti.
Stefano Boeri, l’uomo che ha dato vita al “bosco verticale” a Milano, ha raccontato come “gli alberi sono in grado di assorbire gli agenti inquinanti come le polveri sottili e di stemperare, grazie alla loro ombreggiatura, l’effetto ‘isola di calore’ tipico dei centri urbani densi e congestionanti, raffrescando la temperatura dell’aria di 2-3 gradi centigradi e consentendo una riduzione significativa dei consumi di energia elettrica nel condizionamento dell’aria negli interni urbani”. Quando tutti avranno l’aria condizionata, la Terra sarà bollente. Che fare?
La soluzione deve essere politica
Piantare. Non sradicare. Far crescere. Non abbattere. La deforestazione in America Latina per la produzione di materie prime è un problema del Brasile, degli Stati sudamericani o dell’intera comunità internazionale? Quando il presidente Jair Bolsonaro dice all’Onu che “è sbagliato affermare che l’Amazzonia è patrimonio dell’umanità” ha torto o ragione? Dove comincia e dove finisce la sovranità su uno dei polmoni della Terra? Sono problemi politici che devono trovare una soluzione politica che, in questo caso, passa attraverso un lavoro virtuoso delle Nazioni Unite, con concretezza e non con risoluzioni che poi restano lettera morta.
Purtroppo la perdita di foreste naturali continua, quelle primarie insostituibili sono in pericolo. Vengono al pettine tutti i problemi irrisolti della governance globale, i suoi limiti, i temi reali coperti dagli strepiti di chi si fa alfiere di un -ismo senza soluzioni. Dove c’è il rovescio, c’è anche il dritto, dunque se abbiamo la spia dell’allarme accesa per zone vitali della Terra come la foresta amazzonica, dobbiamo ricordare che in Europa la politica di riforestazione è efficace, il suolo dell’Unione europea coperto da foreste è cresciuto, tra il 1990 e il 2010, di circa 11 milioni di ettari. Si può fare. Serve una grande coalizione per l’ambiente. Il comportamento singolo è quello di tutti, la grande impresa comincia con il piccolo esempio.
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