Un paese per crescere e diffondere benessere sociale deve fare industria, deve investire in ricerca, creare prodotti innovativi e assumere manodopera specializzata. Solo così si può competere a livello internazionale e solo così si può garantire un futuro alle prossime generazioni.
Ma ormai il mondo è cambiato e dobbiamo prenderne atto. Le produzioni industriali vanno dove la manodopera costa meno e le condizioni ambientali sono più favorevoli (pressione fiscale bassa, incentivi alla produzione, bassa conflittualità sindacale).
Non possiamo più sperare di riuscire a conservare in Italia produzioni industriali generiche (come la Fiat). Possiamo e dobbiamo, invece, fare industria nella fascia alta del mercato (aerospazio, hi-tech, biotech, chimica …) dove i costi industriali sono marginali rispetto al valore aggiunto e la competizione si gioca sull’innovazione.
Per aziende come la Fiat o quelle del cosiddetto Made in Italy (alimentare, moda) dobbiamo già essere contenti se riusciamo a mantenere la “testa” in Italia. La grande industria (Montedison, Olivetti) che faceva innovazione e ricerca non esiste più o è scappata all’estero. E’ la realtà e non possiamo sfuggirvi. La stessa Unione Europea non riesce ad incidere su questa dinamica, cosa potrebbe mai fare la piccola Italia?
Competere nella fascia alta sembrerebbe un’impresa disperata per un paese come l’Italia in perenne crisi d’identità, ma nonostante questa lunga crisi, siamo ancora la seconda manifattura d’Europa, dopo la Germania. Abbiamo i cervelli, abbiamo le tecnologie e abbiamo un’arma segreta non convenzionale: le piccole e medie imprese. Il paradosso italiano è proprio quello di essere una potenza industriale (anche se in declino) nonostante il tessuto produttivo sia composto al 92% da pmi. Metterle in rete, aiutarle a fare sistema è l’unica via italiana allo sviluppo.
Un piccola e media impresa da sola non può fare nulla, non può fare industria (quella vera) perchè non ha la massa critica per fare ricerca e non ha i fondi per investire nella produzione. Ma tre milioni di piccole e medie imprese in rete fra di loro possono diventare un’arma letale che nessun altro paese può vantare. Gli strumenti giuridici ci sono: i contratti di rete e i distretti industriali, che potrebbero vivere una seconda giovinezza.
Il modello di business tradizionale (uno a molti) delle imprese di qualsiasi settore si è evoluto da tempo in un modello partecipativo a rete (molti a molti). L’Italia delle mille partite iva e delle micro-aziende familiari si trova davanti un’opportunità unica: trasformare una debolezza strutturale (il nanismo imprenditoriale) in un vantaggio competitivo (è più facile fare sistema tra piccole imprese che tra colossi industriali).
La politica deve giocare il suo ruolo per creare le condizioni, ma sono anzitutto gli imprenditori che devono convincersi che il tempo del fare tutto da soli e del provincialismo è finito, ormai la competizione si gioca tra sistemi e su scala internazionale.
Circa 20 anni fa la Commissione Concorrenza della U.E. giudicò che vi era concorrenza sleale tra grandi aziende che potevano ricorrere al mercatp bosristico e PMI che dovevano essere intermediate sempre dal sistema bancario. Ad oggi nulla è cambiato per quanto riguarda la UE, quindi ben venga il sistema proposto. E’ indispensabile per la sopravvivenza delle PMI. Nel mio piccolo mi tiro su le maniche se posso essere di aiuto.