Il crollo di Netflix potrebbe essere un’opportunità per il mondo del cinema

Il gigante ha dimostrato di avere i piedi di argilla. Netflix ha perso 200mila abbonati nei primi tre mesi del 2022. E’ una cattiva notizia, ma non per tutti. Sicuramente non lo è per i competitor che possono recuperare quote di mercato. E non stiamo parlando solo dei colossi americani del settore, ma anche delle piccole piattaforme di streaming che possono attrarre gli ex clienti di Netflix con offerte più allettanti, sia dal punto di vista economico che di varietà di contenuti. E probabilmente non è una cattiva notizia neanche per il mondo del cinema nel suo insieme che è stato quasi schiacciato dal potere contrattuale della regina dello streaming.

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Troppo potere di decidere quali film e a che condizioni distribuirli concentrato in poche mani è sempre dannoso per il mercato. Certo Amazon e Disney non sono delle educande, ma il segnale sarà arrivato forte e chiaro anche a loro: nessuna crescita è infinita e nessuna crescita può essere fatta a scapito di chi produce i contenuti, che sono la benzina di qualsiasi distributore, anche di quelli digitali.

Il crollo di Netflix potrebbe trasformarsi anche in un’opportunità per il cinema. Produttori, registi e artisti potrebbero unire le loro forze nel tentativo di riprendere il controllo del mercato lanciando, per esempio, una propria piattaforma streaming di sistema o decidendo (tutti insieme e non singolarmente) quanti e quali contenuti vendere a questa o quella piattaforma e a quali condizioni (ovviamente in una logica di solidarietà reciproca che aiuti anche i piccoli produttori e quelli indipendenti). Un’azione da fare quanto meno su scala europea, se non addirittura mondiale. Non sarà facile, ma le grandi piattaforme senza contenuti (film, serie tv, eventi sportivi) sono come una macchina senza carburante.

Qualcuno dirà che Netflix non è solo una piattaforma di streaming, ma da anni è anche un produttore. Vero, ma la maggior parte dei suoi investimenti sono indirizzati verso serie TV (tante) e film (pochi) costruiti ad uso e consumo del suo modello di business (quando il distributore fa anche il produttore la prima vittima è la qualità dei contenuti perchè non c’è la mediazione del mercato). Se il modello comincia a vacillare, anche la sua capacità di investire e produrre contenuti (buoni o pessimi che siano) diminuirà.

Con l’auspicio che qualcosa si muova nella “foresta pietrificata” dello streaming, cerchiamo di capire con l’analisi di Lorenzo Santucci di Formiche.net cosa è successo a Netflix e quale indicazioni si possono trarre per gli scenari futuri.

Cosa è successo a Netflix

Se le aspettative per il primo trimestre prevedevano un aumento di 2,5 milioni di nuovi utenti rispetto allo scorso anno e la realtà parla di un calo di 200mila abbonati, per Netflix la batosta non può che far male. L’azienda è corre a trovare soluzioni per ovviare al problema, dopo dieci anni di crescita esponenziale che sembrava senza fine. Sembrava, appunto. Il risveglio dal lungo sogno è stato traumatico: oltre alla perdita di abbonati, anche le azioni ne hanno risentito facendo registrare un calo fino al 30%. Se dovesse continuare fino a fine giornata, scrive il Wall Street Journal, si tratta del calo più significativo per Netflix da undici anni a questa parte, quando nell’ottobre del 2011 perse il 35%.

Stavolta la perdita è stata inferiore, ma comunque dolorosa. Vale 50 miliardi di dollari, e riduce così a 157 miliardi di dollari la sua capitalizzazione di mercato. Le nuove stime parlano quindi di un presente grigio, che con molta probabilità diventerà nero scuro se verrà confermata l’ulteriore perdita di 2 milioni di iscritti nei prossimi tre mesi. Sarà necessario pertanto pensare a una strada successiva, ma prima bisogna analizzare le cause.

La versione di Netflix

Per la società con sede nella californiana Los Gatos alla base di tutto vi è la condivisione illecita degli account. Ai 222 milioni di utenti registrati alla piattaforma streaming se ne devono aggiungere all’incirca altri 100 milioni che guardano serie tv e film con le credenziali di qualcun altro. Un terzo di questi si trovano negli Stati Uniti e in Canada. Negli Usa questa usanza si potrebbe spiegare con la crescita del prezzo dell’abbonamento basic, passato a gennaio scorso da 13,99 dollari a 15,49 dollari (quando il titolo aveva già perso oltre il 20%). Ma la condivisione delle password è un problema che non viene di certo scoperto oggi e di cui Netflix era perfettamente a conoscenza. Tuttavia, mentre nel momento in cui doveva farsi conoscere non rappresentava un ostacolo – anzi, tutt’al più un incentivo – ora si tratta di un qualcosa che va contro gli interessi dell’azienda che non riesce più a crescere.

Netflix promette di dare la caccia ai furbetti dell’account, ma non sarà facile. Anche perché bisogna convincere a restare quelli che già lo pagano e che avevano scelto la piattaforma per spendere meno rispetto alle altre che, periodicamente, alzavano il prezzo. Anche se con modalità differenti, con Netflix è successa la stessa cosa.

Nella lettera inviata agli azionisti per spiegare cosa sta succedendo, la società di Reed Hastings e Marc Randolph ha affermato che un contributo (negativo) lo hanno offerto anche la poca diffusione della banda larga e delle smart tv, l’inflazione generale che ha tolto dal mercato tante opportunità per i consumatori che non si possono più permettere, l’invasione dell’Ucraina, per cui l’azienda ha chiuso i suoi servizi in Russia perdendo così 700 mila account, ma soprattutto per la concorrenza delle altre piattaforme streaming. Anche senza investire i 20 miliardi di dollari che Netflix ha tirato fuori solo quest’anno, realtà come Disney+, HBO, Warner Bros, Paramount, Hulu o Peacock stanno diventando più competitive. Magari non tutte riusciranno a restare in piedi, ma intanto rosicchiano quote di mercato alla prima (in termini di potenza) delle piattaforme.

La versione degli esperti

La notizia ha colto di sorpresa anche gli addetti ai lavori. Su Bloomberg John Authers ragiona sul perché di questo crollo improvviso. La spiegazione appare semplice: Netflix si è da sempre basata su una concezione utopica, ovvero una crescita esponenziale come se non dovesse mai arrestarsi. A mettergli i bastoni tra le ruote, però, ci hanno pensato gli altri competitor e, soprattutto, un riassetto dei valori che sono sì molto negativi ma si è visto di peggio. Anche una piccola oscillazione per questo tipo di società può avere un effetto molto più grande rispetto ad altre.

La sensibilità di Netflix alla variazione dei tassi di interesse, come di tutte le aziende che hanno le stesse (ottimistiche) aspettative di crescita, ha avuto il suo ruolo. Per l’economista, tutto questo è dovuto anche a questioni sociali. Come le riaperture post-Covid, che hanno riportato le persone fuori da casa e ad essere meno incentivate nello stare davanti a un divano o a spendere soldi per un abbonamento di cui usufruiscono meno rispetto al periodo di chiusura. Da ultimo, la grande competizione sul mercato.

Su questo concordano anche altri analisti. Jefferies Andrew Uerkwitz ha sottolineato, per esempio, come il riconoscimento da parte di Netflix della crescita della concorrenza sia un punto storico per l’azienda. Se una volta era un punto di riferimento, oggi sembra costretta ad adeguarsi alle regole imposte da altri. “Netflix era tradizionalmente considerata un titolo tecnologico”, ha affermato John Christian, tra i fondatori di OnPrem, società di consulenza tech specializzata in media e intrattenimento. Ora invece “sta iniziando a essere valutata come un fornitore di contenuti più tradizionale”. Il cambiamento, quindi, è atteso.

Quali scenari

A tutto c’è una soluzione, specie se ti chiami Netflix. Ma dovrà ripensare la sua stessa narrazione. Innanzitutto, dovrà accettare il fatto che non è più il motore trainante del mercato ma solo una parte di questo, seppur importante. Le sue idee non sono più rivoluzionarie come una volta perché ci sono molti più attori, anche più piccoli, che cercano di ottenere la parte del protagonista. Quello che Netflix ha da offrire, per ora, è solo cinema e serie tv. Non ha sport, spettacoli teatrali, programmi in diretta: insomma, a differenza degli altri, Netflix non è eterogenea. Per di più, quei contenuti che una volta erano imperdibili oggi sono visti dagli spettatori come ripetitivi. Teorie che vengono anche avvalorate dai dati, che parlano di un 37% degli utenti che hanno disdetto il loro abbonamento per i costi troppo elevati e per la mancanza di nuovi contenuti.

Una grande quantità di prodotti, infatti, non è automaticamente indice di qualità. Al contrario, prendendo in prestito una battuta dalla serie di Zerocalcare – disponibile su Netflix, neanche a farlo apposta -, lo spaesamento di fronte cui si trova un utente medio può generare frustrazione. Ma queste sono analisi a cui l’azienda avrà già pensato, perché dalle parole dei suoi vertici sembra che qualcosa stia cambiando e non solo nella qualità dei contenuti.

Ancora più importante è la questione della pubblicità. Fino ad oggi era un tabù, ma l’apertura di un conservatore come Reed Hastings lascia pensare che la rivoluzione si farà. “Coloro che hanno seguito Netflix sanno che sono contrario alla complessità della pubblicità e sono un grande fan dell’abbonamento semplice”, ha affermato aggiungendo che darà la possibilità ai consumatori di spendere meno se si “sottoporranno” alle inserzioni. Pochi secondi di spot possono infatti abbattere di parecchio i costi. Insomma, “è qualcosa che stiamo esaminando ora e che sarà lanciato nel corso del prossimo anno o due”, ha concluso Hastings.

Grande importanza verrà poi data al mercato al di fuori degli Stati Uniti. Soprattutto in Asia, dove Netflix continua a crescere a differenza di altre parti del mondo. Giappone, India e Filippine hanno mostrato un aumento importante dei nuovi utenti ed è lì che l’azienda californiana vuole puntare. Motivo per cui alcuni prodotti non sono in lingua inglese, come le serie Squid Games e All of Us Are Dead. Sta inoltre diversificando la sua produzione, allargandosi ad oltre 50 Paesi. Ripartirà da questo e dall’essere, nonostante tutto, la piattaforma di streaming che conta più abbonamenti al mondo. Ma con una consapevolezza diversa rispetto a prima: più in alto si arriva, più è dolorosa la caduta.

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