Pensate a due giovani uomini. Il primo è un viennese, dalla mente brillante, appassionato di scienza e matematica. In seguito al suicidio della madre, cui era profondamente legato, e al successivo matrimonio del padre con una cantante di night club, cade preda dell’alcolismo e di una vita viziosa e sregolata.
Umorale, irascibile e incline alla rissa, il giovane si chiude lentamente nella solitudine e in un pericoloso cortocircuito depressivo, da cui infine emergerà grazie alla sua forza di volontà e alle straordinarie doti intellettuali che lo condurranno a coronare con successo gli studi di meccanica quantistica.
Il secondo è uno svizzero, figlio di un reverendo protestante e di una madre psicologicamente instabile, che sarà ricoverata in ospedale abbandonando precocemente il bambino a un’infanzia costellata di profonde inquietudini e di serie difficoltà a socializzare con i coetanei. Allevato in un’atmosfera austera, fortemente impregnata di spiritualità e misticismo, il giovane uomo dall’indole introspettiva, coltiverà una straordinaria sensibilità e imparerà presto a sfruttare la sua energia empatica per farne l’anima della sua professione.
Questi due personaggi sono rispettivamente Wolfagang Pauli – uno dei fisici più creativi del Novecento, premio Nobel nel ’45 – e Carl Gustav Jung – lo psicologo che insieme a Sigmund Freud contribuì all’esplorazione dell’inconscio e all’affermazione della psicoanalisi. I due uomini respirano l’atmosfera di un ambiente sociale e politico che, agli inizi del secolo scorso, gode di un fermento culturale e scientifico eccezionale e i loro cammini esistenziali, seppur provenienti da radici diverse, si sono incrociati e contaminati anche a seguito delle sofferte vicende famigliari ma, soprattutto, in virtù dell’acceso fervore intellettuale caratteristico di entrambi.
Nel 1930, Pauli si decide a consultare Jung, per cercare di risolvere le turbe psicologiche che minano sempre più la sua vita relazionale. Nella tipologia junghiana, Pauli appare come un soggetto estremamente interessante, che ha talmente represso la propria capacità di provare sentimenti e affetti da non riuscire più a riconoscerli come tali, percependo gli altri esclusivamente come nemici da combattere e allontanare. Jung resta affascinato dallo scienziato e trova in lui così tanto materiale arcaico che, consapevole del proprio smisurato trasporto empatico, preferisce affidare il paziente per alcuni mesi ad una collega, Erna Rosenbaum, con il compito di annotare in maniera puntuale e neutrale i numerosissimi sogni dell’uomo, centinaia di sogni che Jung esaminerà minuziosamente solo in un secondo tempo, per un’osservazione aliena di pregiudizi.
Quindi, Pauli entra direttamente in analisi con Jung solo nel 1932 e ne esce con un ritrovato e definitivo equilibrio psicologico, tanto che potrà anche sposarsi felicemente, pur non rinunciando mai alle illusorie consolazioni dell’alcol. Dal canto suo, anche Jung raccoglie notevoli benefici dal rapporto con Pauli, confermando come la relazione tra analista e paziente sia sempre una culla di reciproco contagio, o meglio, di una coinfettazione capace di generare un individuo nuovo in entrambe i soggetti della coppia terapeutica.
Da questo sodalizio intellettuale e umano, protrattosi dal 1932 al 1958, testimoniato anche da un fitto carteggio, è nato un libro scritto a due mani, dal titolo Naturklaerung und Psyche, animato dal comune interesse dei due studiosi di far dialogare scienze della natura e scienze dell’uomo, cogliendo i nessi straordinari che mettono in relazione le componenti visibili con quelle invisibili dell’Universo.
Tuttavia, la contaminazione mentale tra i due si è riverberata oltre i confini terapeutici e umani, influenzando sia i successivi metodi di analisi della realtà, sia l’interpretazione degli oggetti stessi di analisi, stimolando speculazioni filosofiche e provocazioni scientifiche tuttora vive. Da un lato, s’impone allo sguardo la materia, oggetto di studio della fisica quantistica di Pauli; dall’altro, bussa all’attenzione la psiche, oggetto della psicanalisi di Jung. Due Universi solo apparentemente separati, in realtà due facce di una stessa superficie traslucida, animata da un costante dialogo a doppio senso, il cui confine mobile si traduce in un magnifico ponte che unisce Spazio e Tempo e che, anziché disgiungere le due dimensioni, ne suggerisce di nuove. I concetti junghiani di archetipo, alchimia, simbolo, inconscio collettivo e sincronicità, apparentemente astratti, diventano per Pauli terreno fertile dove maturare le intuizioni sui quanti e sul principio di esclusione, la teoria che gli è valso il Nobel nel ‘45.
Diversi libri sono stati scritti finora circa il rapporto intellettuale tra Pauli e Jung ma il più recente e, a mio parere, ricco di nuove riflessioni, è uscito da qualche settimana, edito da Raffaello Cortina Editore e s’intitola “Pauli e Jung, un confronto su materia e psiche”, di Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico.
E’ affascinante rileggere il concetto junghiano di sincronicità nella versione quantistica di Pauli. Parlare di sincronicità è talmente complicato che non si sa da che parte cominciare – ha scritto Jung. Sinteticamente, si tratta di un principio per cui un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno non psichico, pur non esistendo tra i due fatti alcun nesso causale ma solo, si fa per dire, un parallelismo di significato. Queste coincidenze temporali sono più frequenti di quanto immaginiamo ma sfuggono alla nostra razionalità, che vorrebbe dare ad ogni fatto una spiegazione logica di causa – effetto. Tuttavia, Pauli è riuscito a traslare questo concetto apparentemente astratto e dal sapore magico in qualche cosa di perfettamente dimostrabile, tramite la fisica quantistica e il suo principio di esclusione, appunto.
Questo principio, formulato nel 1925, sostiene che due elettroni non possono trovarsi in un medesimo stato di moto: due elettroni non possono, cioè, condividere la stessa distanza dal nucleo, il momento angolare, l’orientamento spaziale dell’orbita e lo spin. Semplificando molto, succede che se al nucleo si aggiungono altri elettroni, secondo il principio di esclusione essi occuperanno stati unici e successivi, riempiendo uno dopo l’altro i vari gusci elettronici, andando a formare così altri atomi. Anche se non è connessa da alcuna forza fisica, ogni particella appartenente ad uno spazio fisico si comporta in modo coordinato e sincronizzato con le altre particelle, manifestando correlazioni pur in assenza di qualsiasi forza dinamica che ne sia responsabile e le spieghi. E’ come se le particelle fiutassero la presenza delle altre e si comportassero di conseguenza. Questo dimostra scientificamente come nulla sia casuale ma che tutto attorno a noi sia sempre significativamente connesso, anche se da fili invisibili. E questa è l’analogia con la sincronicità di Jung: si tratta di un concetto psicologico estremamente concreto ma sprovvisto di un linguaggio fenomenico adeguato per essere spiegato, perché ha a che fare con un simbolismo sfuggente, intuibile più facilmente attraverso la grammatica della fisica.
In quest’orizzonte concettuale, non solo emerge la possibilità di eliminare l’incommensurabilità tra osservatore e osservato, ma è anche possibile percepire gli elementi della realtà e le loro relazioni, insieme, contemporaneamente, in modo continuo, come manifestazione di un globale presentarsi di coincidenze significative. Dà le vertigini ‘sentire’ che oltre alle categorie di Spazio, Tempo e Causalità, emerge una dimensione nuova, inafferrabile dalla ragione pura, che concepisce la realtà, da un lato come qualche cosa che esiste da sempre, e dall’altro come la somma degli atti individuali quotidiani.
Mi rendo conto che affrontare argomenti di questa portata può disorientare, perché l’esperienza che la mente fa quando non è in grado di contenere quello che incontra può portare alla follia, o considerare folli chi ne parla. La fatica che si fa nel cercare di vedere oltre il pensabile è qualche cosa che scaraventa fuori dalla realtà stessa, è raggelante eppure affascinante, significa accettare che il nostro pensiero è incapace di abbracciare ciò che sta cercando di raggiungere. Accogliere questa difficoltà, però, è l’unico modo per emozionarsi e forse anche per confortarsi all’idea che una vera separazione tra pensiero e realtà non esiste e che v’è davvero dell’ineffabile oltre la nostra esperienza sensoriale.
Per questo, leggere “Pauli e Jung” mi ha aiutato. Ho sentito molta concretezza in queste pagine, per questo motivo ne consiglio la lettura a chiunque avesse il desiderio di aprire gli occhi su orizzonti forse ancora nebulosi e vaghi. I lettori pratici del pensiero junghiano vi troveranno affascinanti conferme al geniale intuito dello psicanalista, mentre chi fosse a digiuno di psicanalisi avrà la possibilità di aprire gli occhi su un universo infinitamente più vasto e luminoso, rispetto a quello in cui siamo apparentemente confinati. Forse non è nuovo tutto ciò ma è nuovo il linguaggio con cui se ne parla, mescolando scienza, psicologia e filosofia. Già Hegel aveva parlato in maniera metaforica di una natura anfibia dell’uomo, per intendere la duplicità intrinseca che lo caratterizza: da un lato un uomo prigioniero della realtà concreta e della temporalità, dall’altro un uomo che si eleva a pensieri astratti di libertà e di eternità. Questo continuo pendolarismo tra senso dell’effettualità e senso della possibilità, è quanto mai attuale e il pensiero hegeliano sembra persino predire la dilagante realtà virtuale di oggi. Ecco che di fronte a quest’ambivalenza esistenziale, Pauli e Jung, insieme, sembrano aver trovato un’ulteriore chiave intellettuale attraverso cui interpretare la realtà non come qualcosa di compiuto e definito, bensì come un processo in costante divenire, che comprende un altrove e un altrimenti di cui tutti noi siamo inconsapevolmente artefici e contemporaneamente pensatori e oggetto di pensiero.
Alla luce di queste considerazioni, mi sorge spontaneo un ultimo pensiero. Di certo, non era casuale il gioco fantastico che il piccolo Jung era solito fare nel giardino di casa, all’età di otto anni, quando evidentemente era già alla ricerca del suo secondo Sè: seduto su una pietra, quel bambino si chiedeva se egli fosse Carl Gustav Jung o la pietra: “La risposta era tutt’altro che chiara e brancolavo nel buio, buio che però stranamente mi affascinava …”
Da ‘grande’, il dottor Carl Gustav Jung, dopo essere uscito da quel buio, scriverà: “Passerà ancora molto tempo prima che la fisiologia del cervello da un lato e la psicologia dell’inconscio dall’altro possano darsi la mano. Anche se alla nostra conoscenza attuale non è concesso di trovare quei ponti che uniscono le due sponde, esiste tuttavia la sicura certezza della loro presenza. La natura non esisterebbe senza sostanza, ma non esisterebbe neppure se non fosse riflessa nella psiche.”
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