Chi fa impresa sa che un investimento potrebbe non avere il ritorno desiderato. Anche chi assiste giornalmente gli imprenditori sa che un progetto, pur se avviato i migliori presupposti, potrebbe non realizzarsi come sperato, quantomeno non nei tempi previsti. Ciò conduce ad un’apparente, o parziale, non economicità di una gestione di impresa o di alcune spese.
Talvolta, un investimento che non ha un ritorno diretto risulta comunque di interesse per un imprenditore perché apre nuove opportunità o rende visibile l’impresa per operazioni future.
Chi sembra non comprendere quanto sopra sono i nostri giudici.
Purtroppo, una recentissima ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 1282/2021, non solo ha confermato ma ha addirittura inasprito le previsioni nei confronti del contribuente per la deducibilità dei costi di operazioni antieconomiche.
Infatti, la Cassazione ha previsto che l’onere della prova incomba integralmente sul contribuente: quest’ultimo, quindi, una volta contestata dall’Agenzia delle Entrate l’antieconomicità di un comportamento da lui posto in essere, sarà tenuto a provare integralmente le ragioni che hanno inciso sul cattivo andamento dell’operazione stessa.
Il fatto è il seguente: l’Agenzia delle Entrate aveva contestato ad una Srl, che aveva avuto esercizi negativi per 4 anni consecutivi, la mancata giustificazione dell’antieconomicità delle operazioni. Nei precedenti gradi di giudizio, la Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione al contribuente, con una logica assolutamente ineccepibile, prevedendo nella sentenza che sarebbe stato onere dell’Agenzia delle Entrate giustificare il proprio accertamento induttivo. La Cassazione, invece, ribaltando la decisione della Commissione Tributaria Regionale, ha gravato il contribuente dell’onere di fornire spiegazioni e giustificazioni sull’antieconomicità delle operazioni, ritenendo che l’Agenzia delle Entrate avesse elementi sufficienti, dalla semplice antieconomicità, per procedere con un accertamento induttivo.
La durezza di tale interpretazione è di tutta evidenza, perché, di fatto, ribalta sul contribuente, che ha già avuto perdite e sostenuto costi che non hanno visto l’atteso ritorno, anche l’onere di giustificare dinanzi all’Agenzia delle Entrate il perché di alcuni comportamenti.
La giurisprudenza di legittimità, peraltro, si era espressa in precedenza in modo sostanzialmente opposto: l’ordinanza 450/2018 aveva, infatti, rilevato che il principio di inerenza va valutato con un esame qualitativo più che quantitativo, prescindendo da un esame “utilitaristico”. In tal senso, si è successivamente espressa anche la Corte Costituzionale con sentenza 262/2020.
Queste ultime due decisioni citate avevano fatto ben sperare gli imprenditori, lasciando presumere che le rettifiche analitico-induttive dell’AE, fondate sull’antieconomicità della gestione e delle spese, venissero effettuate solo in caso di concreti elementi, e non su presunzioni e ricostruzioni ipotetiche.
È evidente, come, in base ad un sacrosanto principio generale del nostro diritto, chi avanza una pretesa dinanzi ad un giudice debba fornire adeguata prova. Ci si augura quindi che la Cassazione, dopo questo “incidente di percorso” torni sulla corretta interpretazione secondo cui è l’Amministrazione Finanziaria che è tenuta a dimostrare i caratteri di gravità, precisione e concordanza delle sue presunzioni.