L’inizio del nuovo anno ha assestato l’ennesimo duro colpo ai maggiori paesi produttori di petrolio, con il prezzo del greggio che non ha accennato ad arrestare la sua corsa al ribasso. Complice la rimozione delle sanzioni internazionali all’Iran, sia il WTI che il Brent sono scesi ben sotto la soglia critica dei 30 dollari al barile, toccando i minimi dal 2003.
Questi sviluppi, ovviamente, non possono che avere forti ripercussioni sugli esportatori di idrocarburi, che spesso dipendono dai proventi delle vendite internazionali per garantire la sostenibilità dei loro bilanci pubblici e la stabilità dei regimi politici.
L’impatto sulle finanze pubbliche
Nella maggioranza di questi paesi, gli introiti delle esportazioni di petrolio (e in parte di gas naturale, il cui prezzo è generalmente collegato a quello del greggio) rappresentano la principale entrata fiscale dei governi. Prima del crollo dei prezzi, ad esempio, le rendite energetiche contribuivano a circa il 50% del prodotto interno lordo e al 75% delle esportazioni dei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, composto da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar. In Iran rappresentavano l’80% del valore delle esportazioni totali e il 60% delle entrate del governo, mentre in Iraq e Libia contribuivano a circa il 40% del prodotto interno lordo.
A ciò si aggiunge il fatto che negli ultimi anni i bilanci pubblici dei principali produttori sono stati approvati sulla base di proiezioni del prezzo del greggio ben al di sopra degli attuali 30 dollari al barile. Per il 2015, le stime più credibili parlano di un fiscal breakeven poco oltre i 100 dollari per l’Arabia Saudita, attorno ai 120 dollari per l’Iran, 130 dollari per l’Algeria, e addirittura oltre i 180 dollari per la Libia. Più virtuosi, ma pur sempre ben oltre l’attuale soglia, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar, con prezzi di equilibrio attorno ai 70 dollari al barile.
Nell’ultimo anno e mezzo la forbice tra proiezioni dei governi e prezzi reali ha creato ovunque forti deficit di bilancio, che sono stati assorbiti grazie alle ingenti riserve finanziarie accumulate nel periodo in cui il barile viaggiava abbondantemente sopra i 100 dollari. Si pensi, ad esempio, al fondo sovrano saudita, che ha raggiunto i 733 miliardi di dollari, o quello del Kuwait (la Kuwait Investment Authority, KIA) che detiene riserve finanziarie pari a circa 600 miliardi di dollari. Tuttavia, poiché le casse di questi fondi – non tutti robusti come quello saudita o quello kuwaitiano – si stanno progressivamente svuotando, i governi devono necessariamente trovare il modo per affrontare in modo strutturale questa situazione, che rischia di diventare insostenibile.
Primi tagli al via
Il crollo dei prezzi del greggio, pertanto, rende necessaria una sostanziale riforma del modello di welfare state – anche energetico – che finora ha garantito servizi e sussidi alla popolazione in cambio dell’esclusione dai processi politici nazionali. Le prime contromosse da parte dei paesi esportatori, infatti, non hanno tardato ad arrivare. I nuovi vertici della casa reale saudita, ad esempio, hanno approvato un taglio del 14% della spesa pubblica, mettendo un freno agli stipendi del settore pubblico – costati, solo in bonus, 24 miliardi di dollari nel 2015 – e riducendo i sussidi energetici, misura che ha determinato l’aumento dei prezzi della benzina alla pompa del 40%.
Anche in Kuwait, per far fronte al significativo deficit di bilancio previsto per il 2016, l’Emiro Sheikh Sabah Al Ahmad Al Jaber Al Sabah ha annunciato l’introduzione di ingenti misure di riduzione della spesa (che andranno a impattare in particolar modo sui prezzi dei combustibili) nonché la possibile introduzione di imposte sui redditi d’impresa per le compagnie locali. Misure simili sono state proposte dal governo algerino, che ha presentato al parlamento una serie di tagli pari al 9% del budget, accompagnati dall’aumento della tassazione, l’introduzione di dazi sulle importazioni e soprattutto una riforma dei sussidi benzina, gasolio ed elettricità. In Iraq, invece, sono previsti tagli significativi al sistema sanitario nazionale, creato negli anni ’70 e ancora oggi tra i (pochi) fiori all’occhiello della politica irachena, in grado di fornire trattamenti sanitari gratuiti al 97% della popolazione urbana e al 71% di quella agricola del Paese.
L’assottigliarsi delle riserve finanziarie e il perdurare di prezzi bassi, in effetti, rischia di mettere in crisi il modello di rentier state messo in piedi dai governi a partire dagli anni ’70. Alcuni benefici garantiti per decenni, ad esempio l’accesso a prezzi irrisori ai servizi energetici e ad altri beni di prima necessità, potrebbero venire drasticamente ridimensionati. In questo contesto, il cambio rapido e radicale di modello socio-economico – soprattutto se non accompagnato da aperture simili in ambito politico, giustificate dalla possibile introduzione di meccanismi di tassazione – potrebbe accrescere l’instabilità interna di alcuni di questi paesi.
Stabilità e interessi europei
Se sommati alle divisioni settarie interne e alle tensioni geopolitiche regionali, i cambiamenti in atto in alcuni di paesi produttori potrebbero effettivamente avere un impatto destabilizzante in una area geografica ad oggi alquanto turbolenta. Il discontento popolare provocato dalle riforme potrebbe trasformarsi in forme violente di protesta, come nel caso dei primi moti della Primavera Araba nel 2011, o in processi di radicalizzazione islamica, con attacchi diretti ai centri di potere nazionali che in questi decenni – tra alti e bassi – hanno comunque garantito una cooperazione energetica stabile ai paesi occidentali.
Ma i tagli ai bilanci pubblici e la minore capacità di spesa potrebbero anche limitare la capacità di alcuni governi di intervenire a livello locale e regionale per garantire la stabilizzazione delle principali – attuali e potenziali – aree di crisi. Questo, ad esempio, è un rischio potenziale in Iraq, dove l’emergere dello Stato Islamico impone a Baghdad ingenti spese militari e umanitarie, insieme al rafforzamento delle misure di sicurezza per proteggere gli asset energetici, alle quali il governo non può non permettersi di fare fronte per tutelare la propria sopravvivenza. Anche in Egitto, dove parte della stabilità del regime del Generale Al-Sisi è stata assicurata dai fondi provenienti dai petro-regimi del Golfo, il paventato giro di vite sulle generose politiche di cooperazione di quest’ultimi metterebbe in serio dubbio la sostenibilità dei conti pubblici del Cairo, esponendo il governo a possibili nuove ondate di tumulti sulla scia di quelli sperimentati negli ultimi anni.
Tutta questa incertezza nel suo vicinato, ovviamente, non può che avere ripercussioni sulla sicurezza dell’Unione europea, nonché sulla sostenibilità dei suoi approvvigionamenti petroliferi, che provengono per il 40% dall’aera africana e mediorientale. Ad oggi, le misure a disposizione di Bruxelles e degli Stati membri per far fronte a questa rapida evoluzione appaiono ancora limitate: tuttavia, grazie al rafforzamento della Diplomazia Energetica europea prevista dall’Energy Union, l’UE potrebbe finalmente dotarsi di strumenti adeguati per cooperare con i partner mediorientali verso una transizione energetica sostenibile (Fonte: ABO).
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