Petrolio e sicurezza: lo stretto Hormuz resta l’ombelico del mondo

Da sempre snodi fondamentali per il commercio e la sicurezza internazionale, gli stretti (choke-points) marittimi sono protagonisti di una nuova stagione di competizione geo-strategica nel Golfo. Lo stretto di Hormuz, che collega il Golfo con l’Oceano Indiano, rimane tra i punti più caldi della regione mediorientale, a causa della tensione fra l’Iran e gli Stati Uniti (così come fra la Repubblica Islamica e l’Arabia Saudita).

Tuttavia, lo stretto del Bab el-Mandeb, che connette il Mar Rosso al Golfo di Aden, non può essere considerato un’alternativa sicura al problematico Hormuz: infatti, il protrarsi del conflitto civile in Yemen ha sprigionato nuove dinamiche di insicurezza. Inoltre, il quadrante che si estende dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano occidentale si trova ora al centro di rivalità commerciali e militari multiple, con implicazioni strategiche per Mediterraneo ed Europa.

Il commercio marittimo torna a crescere: secondo l’UNCTAD, il trasporto di merci via mare a livello mondiale, è salito del 4 percento nel 2017 e, nel periodo 2018-2023, dovrebbe aumentare del 3,8 percento. Una tendenza che risente, positivamente, della corsa agli investimenti infrastrutturali generata dalla Cina (One Belt, One Road, OBOR), proseguita dall’India (la strategia della connettività) e ora alimentata anche dalle monarchie del Golfo, che progettano porti container e stringono alleanze energetico-commerciali a Oriente.

Proprio le potenze asiatiche, ormai prime importatrici di idrocarburi dal Golfo, hanno largamente contribuito a rinsaldare la centralità degli stretti di Hormuz e del Bab el-Mandeb negli equilibri geo-strategici mondiali. In tale contesto, i rischi alla sicurezza marittima nei e intorno ai choke-points provengono, più vistosamente, da attori statuali (Iran), gruppi insorgenti e terroristici (i ribelli huthi yemeniti e in parte i jihadisti del Sinai egiziano), nonché dalle irrisolte tensioni geopolitiche nel Golfo. Tuttavia, essi emanano anche dal riaffacciarsi della pirateria fra Golfo di Aden e coste della Somalia, così come dalla crescita dei nazionalismi tra le monarchie della Penisola Arabica (Arabia ed Emirati Arabi Uniti contro Qatar). Nel medio-lungo periodo, la necessità di contrastare i nascenti fenomeni di terrorismo marittimo, nonché di garantire la sicurezza dei tanti porti commerciali in costruzione/allargamento, trasforma la libertà di navigazione lungo gli stretti in un interesse sempre più collettivo e nazionale al tempo stesso, offrendo dunque possibili spazi di cooperazione bilaterale e/o multilaterale, in un contesto però altamente competitivo.

Attori, dinamiche e squilibri

La minaccia di interdire o addirittura di chiudere il passaggio marittimo di Hormuz appartiene al repertorio retorico dell’Iran post-rivoluzionario: certamente uno strumento di pressione (geo)politica, quasi un’arma di deterrenza verbale. Dall’uscita unilaterale degli Stati Uniti di Donald Trump dall’accordo sul nucleare iraniano, le dichiarazioni minacciose delle più alte autorità di Teheran su Hormuz sono aumentate.

Un eventuale intervento militare degli Stati Uniti contro l’Iran, così come un teorico intervento armato di Israele e/o Arabia Saudita in territorio iraniano, metterebbero a soqquadro qualsiasi scenario. Tuttavia, in un contesto di escalation politica, vi sono tre elementi che vanno tenuti in considerazione: entrambi depongono a sfavore di una chiusura e/o interdizione dello stretto da parte dell’Iran. In primo luogo, Teheran deve ancora transitare massicciamente per Hormuz per esportare il suo greggio: nel medio-periodo, il porto di Chabahar, nel Sistan va Baluchistan a est dello stretto, finanziato soprattutto dall’India, non sarà ancora nel pieno delle sue capacità operative. Nel 2018, il volume degli scambi commerciali transitati per Chabahar è cresciuto del 50 percento circa, ma il porto è ancora in allargamento, così come in divenire è il progetto di una Free Trade Zone: è probabile che il ritorno delle sanzioni statunitensi ne rallentino e ridimensionino lo sviluppo.

In secondo luogo, interdire Hormuz significherebbe mettere in ginocchio l’economia dell’Iraq, che ha nel Golfo il suo unico sbocco al mare: ciò avrebbe ricadute dirette sulla tenuta sociale del sud iracheno (a maggioranza sciita), che dipende dall’export petrolifero e vede ora una crescente presenza militare-politico-economica delle Popular Mobilization Forces, le milizie irachene filo-Iran. In caso di crisi acuta a Hormuz, gli iraniani metterebbero quindi a rischio quella profondità strategica verso il Mediterraneo Orientale, guadagnata grazie ai proxies, che fa perno sull’Iraq. Infine, l’altro paese che detiene le “chiavi geopolitiche” di Hormuz, ovvero il Sultanato dell’Oman (attraverso la Penisola di Musandam), non ha mai smesso di dialogare con la Repubblica Islamica, anzi ha facilitato i pre-colloqui informali sul nucleare fra Iran e Stati Uniti nel 2013. Per la diplomazia regionale, Muscat rimane una risorsa insostituibile, nonostante le crescenti pressioni saudite affinché si allinei alle posizioni della diarchia Arabia Saudita-Emirati Arabi.

Seppur transito di una percentuale giornaliera di barili di greggio inferiore a Hormuz (quasi il 4 percento contro il 20 percento circa), lo stretto del Bab el-Mandeb è oggi lo snodo più rischioso del quadrante: lo Yemen è l’epicentro dell’insicurezza sub-regionale. Gran parte della costa yemenita occidentale, affacciata sul Mar Rosso, è ancora controllata dagli huthi, insorti sciiti del nord sostenuti militarmente dall’Iran, mentre la città portuale di Hodeida è al centro di un negoziato delle Nazioni Unite: proprio dal triangolo Hodeida-Sanaa-Saada partono i missili e i droni che gli huthi lanciano in territorio saudita. Dunque, la costa ovest è ancora territorio di guerra: dal 2016, gli huthi hanno colpito, con missili a lunga gittata e imbarcazioni esplosive telecomandate, navi da guerra statunitensi, saudite ed emiratine in transito nel Mar Rosso meridionale, nonché petroliere saudite e navi mercantili: nell’estate 2018, Riyadh ha sospeso per dieci giorni il transito petrolifero nel Bab el-Mandeb, dopo l’attacco a una petroliera.

Inoltre, gli huthi hanno fatto largo uso di mine, anche marittime, non solo nel porto di Hodeida, ma anche nel porto di Al-Mokha. Aden, città-porto yemenita, è ancora lontana dalla stabilizzazione politica. Infatti, essa ospita il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, ma è anche la sede del Consiglio di Transizione del Sud, organismo istituzionale (con relativo braccio militare), creato nel 2017 per l’indipendenza del sud.

Nonostante la presenza di Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) nonché della cellula locale del sedicente Stato Islamico si sia qui indebolita, Aden è ancora oggetto di considerevoli infiltrazioni jihadiste. Il Bab el-Mandeb è diventato, da una prospettiva strategica, un prolungamento del Golfo, come evidenziato dal ruolo-chiave di sauditi ed emiratini nell’accordo di pace fra Etiopia ed Eritrea: in Africa Orientale, si gioca una parte rilevante della competizione geopolitica fra Arabia Saudita e Iran, nonché fra le stesse potenze mediorientali (Emirati e Arabia contro Qatar e Turchia), attraverso costruzione/concessioni di porti commerciali, installazioni militari e basi permanenti. Inoltre, l’interdipendenza fra Hormuz e Bab el-Mandeb è diventata più forte, a causa del sostegno iraniano agli huthi yemeniti: ciò significa che una crisi in uno dei due stretti potrebbe generare ricadute politiche e militari nell’altro, rendendo così più facili scenari di escalation e, specularmente, più complessi quelli di de-escalation.

Alleanze, forze navali e difesa dei mari: il ruolo delle monarchie del Golfo

Nella geo-strategia degli stretti, le monarchie del Golfo giocano un ruolo sempre più rilevante: il riflesso di politiche estere interventiste e ambiziose, nonché di investimenti in crescita per le forze navali. Non è un caso che sicurezza energetica e marittima siano al centro dei corsi del NATO Regional Centre in Kuwait. Nelle operazioni navali convenzionali, le monarchie hanno un vantaggio rispetto all’Iran: possono contare su imbarcazioni e sistemi più moderni, nonché sulla protezione navale americana e britannica.

Tradizionalmente orientati alla difesa costiera, sauditi, emiratini e qatarini stanno ora investendo nello sviluppo di “blue water capabilities”, cioè nella capacità di sostenere operazioni in alto mare, ma mancano di personale e addestramento qualificato. Tuttavia, ogni monarchia esprime obiettivi, strategie e alleanze diverse e, in alcuni casi, contrapposte: una differenziazione ancora più marcata dalla rottura dei rapporti diplomatici con il Qatar da parte di Arabia, Emirati, Bahrein ed Egitto nel 2017. Per il Qatar sotto embargo, proiezione marittima al di là di Hormuz significa costruzione di reti di alleanze alternative, per garantire la sopravvivenza economico-commerciale dell’emirato, nonché il suo prestigio regionale.

La crisi nel CCG ha accresciuto i rapporti, anche marittimi, fra Doha, Iran e Turchia, così come quelli fra i qatarini, Kuwait e Oman: nel 2018, Qatar e Iran hanno avviato colloqui per aumentare la cooperazione portuale e marittima. In tema di stretti, l’Arabia Saudita può giocare su due fronti: Hormuz e Bab el-Mandeb-Canale di Suez. Riyadh, che sulla carta è la prima flotta del Golfo ma ha avviato nel 2008 un programma di ammodernamento della Flotta Orientale ancora in corso (Second Naval Enhancement Program II), sta molto investendo sulla costa occidentale, già sbocco di Petroline, la pipeline che trasporta il greggio della regione orientale verso i terminal per l’export: i grandi progetti infrastrutturali, turistici e industriali legati a “Vision 2030” e alla diversificazione post oil si sviluppano tutti sul Mar Rosso (King Abdullah Economic City, NEOM, Red Sea Project). Pertanto, la libertà di navigazione e la sicurezza marittima del Bab el-Mandeb è una priorità nazionale per Riyadh, molto al di là della questione energetico-commerciale. Fino a pochi anni fa, gli Emirati Arabi Uniti erano focalizzati su Hormuz: gli iraniani occupano le isole emiratine di Abu Musa e Greater and Lesser Tunbs dal 1971. Nonostante i confini geografici siano sempre gli stessi, gli Emirati sono però riusciti a ridisegnare i loro confini geopolitici, prima potenziando il porto commerciale di Fujairah (a est di Hormuz), poi attraverso una rapida ma raffinata penetrazione militare-commerciale tra sud dello Yemen e Corno d’Africa (concessione/gestione di porti, basi militari e appoggi logistici), trasformando il Bab el-Mandeb nel perno della loro proiezione “oltre Hormuz”, anche grazie alla Marina oggi più efficiente dell’area CCG. Il Kuwait vive un doppio “collo di bottiglia”: uno terrestre, legato alla vicinanza dell’Iraq in passato ostile, uno marittimo, dovuto alla necessità di transitare per Hormuz.

Ciò influenza la sua politica estera, improntata alla mediazione e al buon vicinato, nonostante la salda appartenenza al campo saudita. In tema di libertà di navigazione, l’Oman gode della collocazione geografica migliore: proteso sull’Oceano Indiano, il Sultanato si è impegnato contro la pirateria nel Golfo di Aden, guarda ora con preoccupazione alla penetrazione economico-militare di sauditi ed emiratini tra le coste orientali dello Yemen (Mahra) e l’isola di Socotra, ed è un’avanguardia nella cooperazione navale con l’India (già dal 1993). Infine, il Bahrein dipende economicamente e militarmente dall’Arabia Saudita: la sua politica estera è di fatto sovrapponibile a quella di Riyadh e, al pari del Kuwait, la priorità di Manama è rappresentata dalla navigabilità del transito di Hormuz, l’unico a disposizione. Nonostante spese superiori rispetto a Teheran, tutte le monarchie risultano però inadeguate a contrastare le attività marittime asimmetriche dell’Iran (missili in grado di colpire forze e target sulla costa, mine e imbarcazioni esplosive), in assenza di coordinamento e interoperabilità nel CCG. Solo l’Oman ha investito in navi da pattugliamento, corvette e piccole fregate in chiave anti-Iran. L’asimmetria, anche sui mari e negli stretti, rimane il vantaggio strategico di Teheran rispetto all’altra riva del Golfo.

Scenari: rischi e architetture di sicurezza

Il quadrante del Bab el-Mandeb registra nascenti architetture di sicurezza, come la Red Sea Alliance, lanciata dall’Arabia Saudita a fine 2018 (con Egitto, Gibuti, Somalia, Sudan, Yemen e Giordania), ma che esclude gli Emirati Arabi, attori ormai imprescindibili per l’area. La prima edizione di “Red Wave I, l’esercitazione navale collegata, si è svolta fra dicembre 2018 e gennaio 2019. “Arab Shield 1”, la grande esercitazione militare ospitata dall’Egitto (novembre 2018) con la partecipazione di Arabia Saudita, EAU, Kuwait, Bahrein, Egitto e Giordania, ha visto il coinvolgimento di forze speciali navali.

Tuttavia, le iniziative di coordinamento marittimo rimangono “in potenza” a causa delle rivalità interne (vedi il GCC Joint Naval Operations Centre in Bahrein), mentre il ruolo delle potenze asiatiche è destinato ad aumentare visti gli elevati interessi commerciali, così come quello della Gran Bretagna, di ritorno “a est di Suez”, con l’apertura delle basi militari in Bahrein (2018) e Oman (2019). Warfare asimmetrico (Hormuz) e fenomeni di terrorismo marittimo (Bab el-Mandeb) rappresentano oggi i principali rischi alla libertà di navigazione negli stretti mediorientali: l’Iran e gli huthi yemeniti ne sono i protagonisti.

In tale quadro, la NATO ha da poco terminato la propria missione “Ocean Shield”, mentre “Eunavfor Atalanta” e “Combined Maritime Forces” proseguono nel contrasto alle minacce marittime fra Aden e Oceano Indiano. Come sottolineato in un recente articolo dall’Ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, il terrorismo marittimo che sta emergendo nell’area del Bab el-Mandeb a causa degli huthi si distingue dalla pirateria e ha capacità militari assai più sofisticate. Nel medio-lungo periodo, la sicurezza dei porti costituisce dunque una priorità economica e di sicurezza, in una fase di rapido sviluppo infrastrutturale e logistico.

Nicolo Sartori
Informazioni su Nicolo Sartori 58 Articoli
Nicolò Sartori è senior fellow e responsabile del Programma Energia dello IAI (Istituto Affari Internazionali), dove coordina progetti sui temi della sicurezza energetica, con particolare attenzione sulla dimensione esterna della politica energetica italiana ed europea.. La sua attività si concentra in particolare sull’evoluzione delle tecnologie nel settore energetico. Ha lavorato inoltre come Consulente di Facoltà al NATO Defense College di Roma, dove ha svolto ricerche sul ruolo dell’Alleanza Atlantica nelle questioni di sicurezza energetica.

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