Da sempre snodi fondamentali per il commercio e la sicurezza internazionale, gli stretti marittimi (choke-points) sono protagonisti di una stagione di competizione geo-strategica nel Golfo. Lo stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico con l’Oceano Indiano, rimane tra i punti più caldi del Medio Oriente, soprattutto in conseguenza del recente attacco americano alle infrastrutture nucleari iraniane. La Repubblica Islamica ha minacciato di chiudere lo stretto al transito delle navi come ritorsione per l’aggressione statunitense.

La strategicità di Hormuz risiede in alcuni dati: per lo stretto passa il 30% del petrolio trasportato in tutto il mondo e il 15% del gas liquefatto. Una eventuale chiusura provocherebbe un sensibile rialzo del prezzo del petrolio e, di conseguenza, una spirale inflazionistica che danneggerebbe gli interessi economici di buona parte del mondo.
La Cina, da tempo primo importatore di idrocarburi dall’Iran, ha largamente contribuito a rinsaldare la centralità degli stretti di Hormuz e del Bab el-Mandeb (Yemen) negli equilibri geo-strategici mondiali. In tale contesto, i rischi alla sicurezza marittima nei e intorno ai choke-points provengono, più vistosamente, dagli Stati (Iran), da alcuni gruppi terroristici (i ribelli huthi yemeniti e in parte i jihadisti del Sinai egiziano), nonché dalle irrisolte tensioni geopolitiche nel Golfo.
Attori, dinamiche e squilibri
La minaccia di interdire o addirittura di chiudere il passaggio marittimo di Hormuz appartiene al repertorio retorico dell’Iran post-rivoluzionario: certamente uno strumento di pressione (geo)politica, quasi un’arma di deterrenza verbale. Dall’uscita unilaterale degli Stati Uniti di Donald Trump dall’accordo sul nucleare iraniano, le dichiarazioni minacciose delle autorità di Teheran su Hormuz sono aumentate.
Nell’attuale contesto di escalation politica, vi sono due elementi che vanno tenuti in considerazione: entrambi depongono a sfavore di una chiusura e/o interdizione dello stretto da parte dell’Iran. In primo luogo, Teheran deve ancora transitare massicciamente per Hormuz per esportare il suo greggio: nel medio-periodo, il porto di Chabahar, nel Sistan va Baluchistan a est dello stretto, finanziato soprattutto dall’India, non sarà ancora nel pieno delle sue capacità operative. Nel 2023, il volume degli scambi commerciali transitati per Chabahar è cresciuto del 30 percento circa, ma il porto è ancora in allargamento, così come in divenire è il progetto di una Free Trade Zone: è probabile che il ritorno delle sanzioni statunitensi ne rallentino e ridimensionino lo sviluppo.
In secondo luogo, interdire Hormuz significherebbe creare problemi di approvvigionamento energetico alla Cina, primo partner commerciale iraniano, e mettere in ginocchio l’economia dell’Iraq, che ha nel Golfo il suo unico sbocco al mare: ciò avrebbe ricadute dirette sulla tenuta sociale del sud iracheno (a maggioranza sciita), che dipende dall’export petrolifero e vede ora una crescente presenza militare-politico-economica delle Popular Mobilization Forces, le milizie irachene filo-Iran
In caso di chiusura dello stretto di Hormuz, gli iraniani metterebbero quindi a rischio quella profondità strategica verso il Mediterraneo Orientale, guadagnata grazie ai proxies, che fa perno sull’Iraq. Infine, l’altro paese che detiene le “chiavi geopolitiche” di Hormuz, ovvero il Sultanato dell’Oman (attraverso la Penisola di Musandam), non ha mai smesso di dialogare con la Repubblica Islamica, anzi ha facilitato i pre-colloqui informali sul nucleare fra Iran e Stati Uniti.
Seppur transito di una percentuale giornaliera di barili di greggio inferiore a Hormuz (quasi il 4 percento contro il 30 percento circa), lo stretto del Bab el-Mandeb è oggi lo snodo più rischioso del quadrante: lo Yemen è l’epicentro dell’insicurezza sub-regionale. Gran parte della costa yemenita occidentale, affacciata sul Mar Rosso, è ancora controllata dagli huthi, insorti sciiti del nord sostenuti militarmente dall’Iran, mentre la città portuale di Hodeida è al centro di un negoziato delle Nazioni Unite: proprio dal triangolo Hodeida-Sanaa-Saada partono i missili e i droni che gli huthi lanciano contro Israele. Dunque, la costa ovest è ancora territorio di guerra: negli ultimi 2 anni gli huthi hanno colpito, con missili a lunga gittata e imbarcazioni esplosive telecomandate, navi commerciali occidentali, generando un sensibile aumento dei costi dei noli marittimi.
Inoltre, gli huthi hanno fatto largo uso di mine, anche marittime, non solo nel porto di Hodeida, ma anche nel porto di Al-Mokha. Aden, città-porto yemenita, è ancora lontana dalla stabilizzazione politica. Infatti, essa ospita il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, ma è anche la sede del Consiglio di Transizione del Sud, organismo istituzionale (con relativo braccio militare), creato nel 2017 per l’indipendenza del sud.
Il Bab el-Mandeb è diventato, da una prospettiva strategica, un prolungamento del Golfo, come evidenziato dal ruolo-chiave di sauditi ed emiratini nell’accordo di pace fra Etiopia ed Eritrea: in Africa Orientale, si gioca una parte rilevante della competizione geopolitica fra Arabia Saudita e Iran, nonché fra le stesse potenze mediorientali (Emirati e Arabia contro Qatar e Turchia), attraverso costruzione/concessioni di porti commerciali, installazioni militari e basi permanenti.
Inoltre, l’interdipendenza fra Hormuz e Bab el-Mandeb è diventata più forte, a causa del sostegno iraniano agli huthi yemeniti: ciò significa che una crisi in uno dei due stretti potrebbe generare ricadute politiche e militari nell’altro, rendendo così più facili scenari di escalation e, specularmente, più complessi quelli di de-escalation.
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