Quella che oggi appare ai più una questione di sopravvivenza, potrebbe trasformarsi in una grande opportunità per i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Si tratta della necessità di questi paesi – tutti fortemente dipendenti dalle esportazioni petrolifere – di diversificare la loro struttura economico-industriale basata sul petrolio (ad eccezione del Qatar), e con essa le fondamenta del proprio settore energetico.
Il crollo dei prezzi del greggio e il perdurante stato di incertezza e volatilità sui mercati petroliferi, che ha determinato l’incapacità dell’OPEC di rispondere ai cambiamenti in atto, rappresentano una sfida esistenziale per i paesi del GCC.
La storia degli ultimi cinque anni ha infatti imposto ai regimi del Golfo (così come agli altri grandi paesi esportatori) la necessità di intraprendere un serio sforzo di riforma per ridurre il peso delle rendite petrolifere sulle attività economiche e sugli equilibri politico-sociali interni. Da fine 2014, nel giro di tre anni, le entrate finanziarie derivanti dalle esportazioni di greggio sono crollate di 400 miliardi di dollari, mentre nel 2016 i sei membri GCC hanno sperimentato – dopo oltre un decennio di avanzi in media superiori al 10 percento del PIL – un deficit aggregato attorno al 12 percento.
Ovviamente, le performance macroeconomiche variano di paese in paese, sulla base del peso del petrolio nell’economia nazionale – in Kuwait, ad esempio, la contrazione è stata del 30 percento, in Arabia Saudita del 15 percento, mentre casi più virtuosi come gli Emirati Arabi Uniti sono riusciti a limitare i danni e contenere il deficit al 2,1 percento – ma il trend generale appare ineluttabile. In concomitanza con entrate finanziarie in calo, i paesi GCC hanno sperimentato un rallentamento sostanziale dei tassi di crescita economica, un aumento della disoccupazione, il crollo dei salari e la contrazione dei consumi pro-capite.
Ripensare il ruolo del petrolio
Ad oggi le grandi riserve finanziarie accumulate nei fondi sovrani del Golfo hanno garantito ai monarchi della regione un cuscinetto per far fronte ai momenti di turbolenza (e ripianare gli ingenti deficit pubblici). Essi, tuttavia, non sono e non possono essere la soluzione definitiva. Il ruolo del petrolio nella vita – politica, economica, e sociale – di questi paesi va necessariamente ripensato. Attualmente, infatti, la ripresa dei prezzi del petrolio (e quindi delle revenues) rappresenta l’unico fattore in grado di garantire la ripresa delle economie di questi paesi, una condizione che di fatto conferma la trappola nella quale le economie del Golfo sono attualmente imbrigliate. Se nel medio periodo è assolutamente necessario ridurre il peso del settore petrolifero sull’economia di questi paesi, nel breve diventa fondamentale gestire queste risorse in modo oculato e virtuoso sul piano interno.
L’uso intensivo e inefficiente del greggio e dei suoi derivati a livello domestico limita infatti in modo significativo la capacità di questi paesi di massimizzare le esportazioni, e con esse le entrate finanziarie. Negli ultimi due decenni i consumi energetici nel Golfo sono schizzati, e tra il 2000 e il 2014 il GCC ha fatto registrare la maggiore crescita della domanda a livello globale, seconda solo a quella cinese. Basti pensare che Arabia Saudita e Kuwait consumano internamente circa un terzo della loro (immensa) produzione, che in Oman la domanda interna assorbe quasi internamente l’output nazionale, mentre il Bahrein è addirittura costretto a importare greggio dal vicino saudita.
L’unico paese sostanzialmente non toccato da certe dinamiche è il Qatar, dove la maggior parte della produzione petrolifera è destinata alle esportazioni, avendo il paese abbracciato un sviluppo legato principalmente ai consumi di gas naturale. Alla luce dei trend demografici, dei tassi di elettrificazione e (una volta ripresa) della crescita economica, i consumi energetici interni sembrano destinati a espandersi ulteriormente, con i settori dei trasporti e della generazione elettrica sotto la lente d’ingrandimento per quanto riguarda la domanda petrolifera.
Ma se l’automotive rappresenta in un certo senso il cuore dei consumi di petrolio e derivati – a maggior ragione in paesi dove i prezzi della benzina sono largamente sussidiati, come nel caso dei GCC – la dipendenza del settore elettrico rappresenta un’anomalia e una criticità tutta del Golfo. Basti pensare che greggio, diesel e HFO contribuiscono al 40 percento della capacità di generazione elettrica nel GCC, concentrata in particolare in Arabia Saudita (75 percento della generazione nazionale) e Kuwait (65 percento), con un peso decisamente minore negli Emirati Arabi Uniti. Numeri impressionanti, che testimoniano la necessità dei governi locali di affrancarsi da un simile modello – nel tentativo di monetizzare rapidamente il valore di queste risorse – soprattutto alla luce di un mercato del petrolio destinato a diventare sempre più incerto e meno remunerativo nel lungo periodo.
Accelerare sul gas
Alla necessità di monetizzare lo sfruttamento delle risorse petrolifere fa da contraltare l’esigenza di valorizzare le riserve domestiche di gas naturale, di cui la regione è ricca, sebbene in proporzioni minori rispetto al greggio. La centralità dell’area del Golfo sul fronte petrolifero fa infatti spesso passare in secondo piano il potenziale dell’area nel settore del gas. Basti pensare che nei sei membri GCC sono localizzati 42 trilioni di metri cubi (Tcm) di gas, pari al 22 percento delle riserve scoperte a livello globale, mentre la produzione annua si attesa attorno ai 410 miliardi di metri cubi – quasi un terzo dei quali in Qatar – pari a ‘solo’ l’11 percento dell’output totale. Il già menzionato Qatar è senza dubbio il leader regionale del settore, con riserve stimate pari a 25 Tcm (terzo paese al mondo dopo Russia e Iran) e una produzione di 123 Bcm annui, la maggioranza dei quali destinati all’export.
Nei restanti membri del GCC, oltre a tassi di produzione decisamente inferiori rispetto al potenziale, va sottolineata la sostanziale assenza di una strategia orientata alle esportazioni. L’Arabia Saudita, secondo paese in termini di produzione, consuma sul mercato domestico tutti gli 84 Bcm di gas prodotti dai propri giacimenti, al pari di Kuwait e Bahrein. Gli Emirati Arabi Uniti, con un produzione annua di 81 Bcm, risultano importatori netti nonostante piccoli volumi (5 Bcm annui) venduti sul mercato LNG, mentre sempre via LNG l’Oman esporta 10 Bcm all’anno, circa un terzo dell’output nazionale. Nel contesto della transizione energetica, queste risorse possono giocare un ruolo essenziale sia a livello regionale che su scala globale.
Grazie ai suoi minori tassi di intensità di CO2 rispetto a greggio e carbone, il gas naturale è infatti universalmente riconosciuto come il combustibile fossile ‘ponte’ verso una completa decarbonizzazione dell’economia da raggiungere nei prossimi decenni per far fronte alle impellenti sfide del cambiamento climatico. Puntare da subito, e con decisione, sulla valorizzazione delle proprie riserve, può permettere ai paesi del GCC di raggiungere tre obiettivi essenziali, spalmati in base a diverse scadenze temporali. In primo luogo, permette di liberare risorse petrolifere utilizzate in modo inefficiente in ambito interno (soprattutto nelle attività di generazione elettrica), in modo da massimizzare le rendite da esportazioni prima che ulteriore volatilità e incertezza si imbattano sui mercati del greggio.
In secondo luogo, garantisce il posizionamento strategico dei paesi GCC sui mercati internazionali del gas, destinati a crescere in modo esponenziale – soprattutto in Asia – alla luce delle politiche globali di decarbonizzazione. In terzo luogo, assicura una transizione interna sostenibile, sia dal punto di vista economico che da quello ambientale, in linea con gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni fissati dall’Accordo di Parigi. In quest’ottica, attori istituzionali e settore privato sembrano più che mai orientati a cogliere le opportunità intrinseche nel settore del gas.
E se la scelta del Qatar – leader globale dell’LNG – di abbandonare l’OPEC per focalizzarsi sulla produzione e commercializzazione di gas appare inevitabile, l’annuncio di Saudi Aramco (compagnia energetica saudita e principale produttore di petrolio a livello internazionale) di investire massicciamente nel gas non poteva rimanere inosservata. Da un lato Amin Nasser, ministro dell’Energia saudita, ha lanciato la strategia del regime di aumentare la quota di gas nel mix energetico dal 50 al 70 percento grazie a nuova produzione domestica.
Dall’altro il gigante saudita ha deciso di investire 160 miliardi di dollari nello sviluppo dei giacimenti convenzionali e non-convenzionali localizzati nel paese, in modo da poter intercettare la crescente domanda di gas da parte di Cina e India. Anche il Kuwait si sta muovendo in questa direzione: in primis, ha in programma di aumentare le forniture esterne di gas attraverso i terminal LNG di Mina al-Ahmadi e al-Zour, in modo da ridurre la quota di petrolio nel settore elettrico; inoltre, sta rafforzando gli investimenti nel settore upstream interno, per raggiungere la produzione di 11 Bcm annui al 2023. In ultimo, va sottolineata la strategia degli Emirati Arabi Uniti, che in partnership con Eni e Wintershall puntano a sviluppare un megaprogetto upstream nell’area dei giacimenti Hail, Ghasha e Dalma, in grado – una volta a regime – di soddisfare il 20 percento della domanda interna.
Imparare dal passato, guardando al futuro
Lo sfruttamento dell’enorme potenziale del gas naturale non deve distrarre i governi del GCC da quelle che sono le priorità per i loro paesi, ovvero una transizione sicura e sostenibile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Gli investimenti in gas, in questo contesto, devono rappresentare il primo passo di una strategia di diversificazione su scala regionale, e non il passaggio verso una nuova forma di dipendenza da risorse energetiche, attraverso la progressiva sostituzione del greggio con il gas naturale.
A tal fine, lo sviluppo delle riserve di gas va necessariamente accompagnato da sforzi concreti nella promozione di nuovi strumenti in ambito energetico, dalla penetrazione delle rinnovabili a misure in materia di efficienza energetica e rimozione dei sussidi. Sforzi che hanno contraddistinto i governi nell’immediato post-crollo dei prezzi del greggio, ma che in realtà stanno vivendo una fase di stanca a partire dalla ripresa (seppur faticosa) dei mercati petroliferi. Ad esempio, l’Arabia Saudita è in procinto di avviare la realizzazione di 30 progetti tra solare ed eolico – per circa 9,5 di capacità installata – entro il 2023 nell’ambito del piano strategico 2023 Vision.
Anche gli Emirati Arabi hanno lanciato la loro iniziativa, con l’obiettivo di raggiungere il 50 percento dei consumi finali attraverso energia rinnovabile e di ridurre l’impatto del carbonio nel settore generazione. Si tratta di progetti ambiziosi, che – grazie all’evoluzione tecnologica da un lato, e alle caratteristiche meteorologiche/climatiche della regione dall’altro – possono portare i paesi dell’area a risultati davvero eccezionali.
Grazie alla combinazione tra il gas naturale abbondante nella regione e l’immenso potenziale rinnovabile, il GCC ha infatti la possibilità di scardinare una volta per tutte gli schemi di dipendenza (da petrolio) che ne hanno limitato, e ne limitano, lo sviluppo economico e socio-politico.
Sebbene l’attuazione di queste strategie sia destinata a incontrare forti resistenze (con l’obiettivo di mantenere in vita l’ordine esistente, quantomeno fino al punto di non ritorno), va sottolineato come i primi passi mossi dagli attori regionali nel settore del gas lasciano sperare ancora in una transizione sicura, equa e sostenibile in tutta la regione.
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