La Russia rientra con decisione nel settore petrolifero libico, e lo fa attraverso la compagnia nazionale Rosneft, sempre più il ”braccio energetico” del Cremlino nel quadrante mediterraneo e medio-orientale. Una regione in cui il vuoto geo-strategico generato dall’incertezza sulle priorità degli Stati Uniti di Trump e dalle difficoltà dell’UE nell’elaborare un approccio coerente e condiviso, sembra spalancare le porte all’azione di Mosca che potrebbe mettere a segno l’ennesimo successo di politica estera (ed energetica) ai confini dell’Europa.
La cooperazione energetica nel Mediterraneo
Quello di Mosca in Libia rappresenta un ritorno, poiché il Cremlino era già presente nel settore energetico del paese nel 2011 – prima della caduta del regime di Gheddafi – attraverso le compagnie Gazpromneft e Tatneft. Durante il conflitto civile, le attività si sono sostanzialmente bloccate, nell’attesa che la situazione sul terreno rendesse praticabile un ripristino sicuro e sostenibile delle operazioni.
Oggi, il ruolo di principale interlocutore russo per la compagnia nazionale libica (NOC) viene affidato principalmente a Rosneft, che negli ultimi mesi ha acquisito grande visibilità e capacità operativa nell’area mediorientale, grazie all’avvio di attività di E&P in Iraq, ma soprattutto all’acquisto del 30% delle quote del giacimento Zohr, nelle acque egiziane. L’accordo di febbraio tra Rosneft e NOC, in realtà, non entra nei dettagli della collaborazione bilaterale, ma prevede semplicemente la creazione di un gruppo di lavoro congiunto tra le sue aziende per esplorare le opportunità di partnership, in particolare nel settore dell’E&P. Nonostante la vaghezza della sua formula, la tempistica dell’accordo è particolarmente rilevante, perché coincide con una significativa ripresa della produzione libica (che a fine 2016 ha raggiunto i 700mila barili giorno), e di un più generalizzato tentativo delle istituzioni locali di rilanciare il settore petrolifero nazionale nei confronti di investitori stranieri.
Il rilancio delle attività di produzione e di esportazione di greggio, a Mosca lo sanno bene, non può prescindere da una effettiva stabilizzazione sul terreno (si legga lotta al terrorismo). Ed è in quest’ottica che il Cremlino ha avviato un progressivo avvicinamento a Khalifa Haftar – uomo forte in Cirenaica e leader delle forza armate che sostengono il governo di Tobruk – sancito dalla visita dello stesso Haftar a Mosca lo scorso dicembre, e culminato con i colloqui a bordo della portaerei russa Kuznetsov di passaggio al largo delle coste libiche a gennaio. Il sostegno e la copertura delle truppe di Haftar, chiamato direttamente in causa dal portavoce del Cremlino Dmitrij Pesko, sono un elemento chiave per qualsiasi tipo di iniziativa russa nel settore energetico libico. Gli uomini del generale, infatti, hanno in passato dimostrato la capacità di proteggere le installazioni petrolifere e di controllare i terminal per le esportazioni, e diventano oggi un attore chiave per arginare e respingere le iniziative delle milizie islamiste all’interno dell’Oil Crescent, quella porzione di territorio di Cirenaica dove sono localizzate buona parte delle risorse e delle infrastrutture sensibili. Ma, nel caso in cui le forze locali non dovessero riuscire a garantire la tutela degli interessi energetici russi, il ruolo di Mosca sul campo potrebbe farsi decisamente più attivo. Se già da settimane si specula sulla presenza di forze speciali russe presenti nella zona di Bengasi, non è da escludere che la luna di miele tra Haftar e Putin sancisca lo stanziamento di una base militare russa sulle coste libiche.
Incertezza startegica e implicazioni per l’Europa
Cosa implica questo susseguirsi di avvenimenti per gli equilibri strategici nella regione, e per la sicurezza europea? Il fatto certo è che la Russia si trova di fronte ad un allineamento astrale pressoché perfetto nel bacino Mediterraneo: dalla Turchia alla Libia, passando per Siria ed Egitto (ed includendo anche gli ”occidentali” Cipro, Grecia ed Israele), la serie di alleanze allacciate da Mosca garantisce al Cremlino un proiezione strategica eccezionale nell’area. Impugnando il vessillo della lotta al terrorismo – oggi particolarmente spendibile di fronte al rivale storico nell’area mediterranea, gli Stati Uniti di Donald Trump – di fatto Putin ritorna in scena in uno dei paesi chiave per gli equilibri della regione (nonché della sicurezza in Europa). E prova a riprendersi ciò che la caduta di Gheddafi aveva in parte sottratto alla Russia: investimenti nel settore energetico, cooperazione in ambito militare e soprattutto influenza sulle dinamiche interne (in collaborazione col ”nuovo alleato” al-Sisi). L’Europa, divisa e ancora disorientata dall’avvento di Trump, rimane a guardare in attesa dell’evolversi della situazione. Se è vero che il successo dell’iniziativa di Mosca potrebbe favorire una almeno parziale stabilizzazione del paese – con effetti positivi (in particolare su migranti e produzione energetica) anche per la sicurezza europea – l’esperienza siriana dimostra che alla lunga il modus operandi e gli interessi russi possono esacerbare le divisioni e le posizioni massimaliste tra le diverse fazioni in lotta. Un rischio che gli stati europei, per quanto in balia degli eventi, non possono permettersi di correre.
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