Le speranze riposte nella Nuova Via della Seta dagli USA all’Europa, passando per il Sud-est asiatico

A fine aprile si è tenuto a Pechino il secondo Belt and Road Forum (BRF). In questa occasione, che ha visto la partecipazione di 150 paesi (37 dei quali rappresentati dai rispettivi capi di stato e governo), la Cina ha affrontato molte delle critiche mosse nei confronti della Belt and Road Initiative (BRI), anche nota come Nuova Via della Seta.

Annunciato nel 2013, l’ambizioso progetto globale di connettività e sviluppo infrastrutturale ha esposto Pechino a critiche su due fronti. Il primo è quello della tesi secondo cui la BRI non sarebbe altro che il grande piano cinese per dominare il mondo. Il secondo, a esso collegato ma più empirico, vede nei termini del progetto una “trappola del debito” che esporrebbe precisamente i paesi partecipanti a quello stesso dominio cinese.

La Cina sta compiendo notevoli sforzi per portare avanti la BRI nonostante le accuse di natura geopolitica e le testimonianze di paesi caduti nella trappola del debito. Ignorando l’opposizione nei confronti dell’iniziativa, fino a poco tempo fa Pechino aveva ostinatamente seguito la consueta linea dura. Tuttavia, con l’avvicinarsi del Belt and Road Forum sono arrivati i primi segnali di una Cina più disposta a discutere e a sostenere le proprie ragioni ma anche a rivedere i termini di attuazione del progetto.

In Europa, il successo dello sforzo diplomatico per far accettare la BRI prima del forum è stato limitato. L’Italia è stato il primo paese del G7 a aderire alla Nuova Via della Seta, ma la visita del presidente cinese Xi Jinping in Francia lo scorso marzo non è riuscita a garantire all’iniziativa il sostegno dell’UE. In tale occasione, il presidente francese Macron ha invitato la cancelliera tedesca Merkel e il presidente della Commissione europea Junker all’incontro con Xi per mostrare al presidente cinese un fronte europeo compatto, nonostante l’uscita dai ranghi di un’economia di peso come quella italiana. La posizione sostenuta dall’Europa era chiara: quanto finora attuato del progetto BRI non aveva rispettato le norme internazionali.

Malesia, i dubbi sul progetto ferroviario

Ma è soprattutto nel sud-est asiatico, terreno di interesse economico cinese, che la Nuova Via della Seta è stata messa a dura prova. Insediatosi nel maggio del 2018, il nuovo governo malese ha sospeso l’East Coast Rail Link (ECRL), progetto ferroviario di valore simbolico da 65,5 miliardi di renminbi (9,47 miliardi di dollari USA) promosso nell’ambito della BRI. Alla luce degli scandali di corruzione del precedente esecutivo, la Malesia ha messo in discussione il costo e i termini finanziari dell’ECRL, suggerendo che la compagnia di stato cinese China Communications Construction Co Ltd (CCCC) avrebbe avuto un accordo con l’allora primo ministro Najib Razak per cancellare le passività derivanti dai suoi metodi disonesti.

Questo avrebbe gonfiato i costi del progetto. Ma il nuovo primo ministro rieletto, Mahathir Mohamad, non era intenzionato a permetterlo. Secondo i calcoli del nuovo governo, alle condizioni finanziarie previste (che includevano l’obbligo di effettuare pagamenti off-shore dal credito della cinese EXIM Bank in base a un calendario prestabilito anziché agli effettivi progressi dei lavori) il paese sarebbe stato soffocato da un debito di 130 miliardi di renminbi (18,79 miliardi di dollari). In effetti, 3 miliardi di renminbi (434 milioni di dollari) erano già stati corrisposti a CCCC senza che i lavori avessero fatto praticamente progressi, facendo sorgere più di un interrogativo sulla vera ragione di quei versamenti.

Il premier Mahathir e il suo esecutivo hanno avviato una grande operazione di risanamento, la cui importanza per il paese è di gran lunga superiore a quella che la BRI riveste per la Cina. L’ex primo ministro Najib Razak aveva lasciato il governo con enormi passività finanziarie che, se non affrontate, avrebbero portato lo stato alla bancarotta: pertanto, la Malesia non poteva sostenere l’onere dei progetti BRI, tanto cari alla Cina, che avrebbero lasciato il paese in ginocchio. La decisione di sospendere l’ECRL (e di abbandonare i due progetti di gasdotti) è stata dunque presa nell’interesse nazionale.

In un tale contesto, non può che venire in mente la tesi della trappola del debito. Tuttavia, non bisogna dimenticare che dirigenti nazionali corrotti possono “vendere” il proprio paese per trarne vantaggi personali o risolvere le difficoltà causate da un governo cleptocratico.

La Malesia ha avuto la fortuna che il dispendioso progetto dell’ECRL non fosse ancora troppo avanzato. Al contrario, nel caso di Hambantota, città portuale dello Sri Lanka, era ormai troppo tardi per evitare di cedere per 99 anni il controllo del porto alla Cina a seguito di un enorme default del debito. Per quanto riguarda il Corridoio Economico Cina-Pakistan (peraltro contestato dall’India in quanto percepito come una minaccia alla sicurezza) l’esecuzione del contratto è talmente avanzata che la Cina rifiuta di rinegoziarne i termini malgrado le richieste del nuovo esecutivo eletto quest’anno.

Nonostante tutto, neppure in Malesia è stato semplice rinegoziare l’accordo dell’ECRL per renderlo finanziariamente sostenibile e salvare al contempo la faccia dei cinesi. Dopo mesi di trattative, si è raggiunto infine un accordo aggiuntivo. Il costo totale per chilometro della linea ferroviaria che collega la costa orientale della Malesia peninsulare alla parte occidentale è diminuito di oltre il 30 percento grazie a una leggera riduzione della lunghezza dei binari (648 km) e a nuove rotte che hanno consentito di risparmiare una cresta di quarzo di 16 km (la più lunga diga di quarzo puro al mondo) come pure di ridurre la perforazione di gallerie attraverso le rocce ricche di silice della principale catena montuosa del paese.

Gli sforzi diplomatici per la revisione dell’accordo

La revisione dell’accordo è stata un’operazione delicata, poiché era necessario riallacciare e preservare le relazioni sino-malesi. In effetti, le forti critiche nei confronti dell’ECRL e dei gasdotti BRI, giudicati sospetti e unilaterali dal nuovo governo di Kuala Lumpur, avevano suscitato la collera della Cina. Solo un’attenta attività diplomatica e delicati negoziati hanno consentito di raggiungere una nuova intesa sull’ECRL, definita reciprocamente vantaggiosa.

La visita a Pechino del premier Mahathir dello scorso agosto si era svolta all’insegna della tensione. All’epoca, il primo ministro malese aveva definito “trattati iniqui” gli accordi BRI nel suo paese e annunciato ai dirigenti cinesi che il progetto dell’ECRL era sospeso e doveva essere rinegoziato. Un’atmosfera ben lontana da quella festosa che ha caratterizzato la sua partecipazione al Belt and Road Forum dell’aprile di quest’anno, con il progetto dell’ECRL ormai salvo e gli interessi della Malesia tutelati.

Accolto calorosamente, Mahathir ha avuto l’onore di essere uno dei pochi oratori non cinesi a intervenire durante il forum, un’occasione che ha colto per plaudire alla lungimiranza della Nuova Via della Seta, ribadendo che, se fossero state rispettate le condizioni migliori, avrebbe portato grande sviluppo a paesi meno avanzati. Nel suo discorso di apertura, il presidente Xi ha ammesso la presenza di problemi nell’attuazione della BRI e promesso maggiore attenzione per garantire in futuro non solo sostenibilità finanziaria ma anche tutela dell’ambiente. Naturalmente non è stata solo la questione dell’ECRL a portare a un tale risultato. Si tratta piuttosto di una reazione alle costanti critiche nei confronti dei termini dei progetti BRI e del loro scarso rispetto per l’ambiente.

Tuttavia, quello dell’ECRL potrebbe rivelarsi un utile caso di studio, o addirittura un modello, di come uscire da una situazione delicata senza sconvolgere le relazioni con la Cina.

Al centro di tutto c’è la questione della corruzione del paese ospitante. Le aziende cinesi vedono l’opportunità e la colgono al volo. Il risultato è un’enorme perdita per il paese a cui la BRI dovrebbe arrecare benefici, esponendo le generazioni future agli oneri finanziari di progetti insostenibili. Se si rispettano le migliori pratiche, in particolare in materia di trasparenza, i politici corrotti dei paesi ospitanti e le imprese cinesi non la faranno franca.

Durante il Belt and Road Forum, Xi ha promesso un cambiamento in questo senso. Per garantire che ciò avvenga realmente, potrebbe essere utile istituire gare d’appalto aperte, una revisione accurata delle proposte commerciali e finanziarie come pure studi sull’impatto ambientale prima della conclusione degli accordi. Inoltre, occorre monitorare attentamente l’esecuzione dei progetti per garantire il rispetto dei termini sul campo e non solo sulla carta.

Il Master Plan on Connectivity e la Vision 2030

Nel sud-est asiatico, il Master Plan on ASEAN Connectivity 2025 (MPAC) prevede cinque principi guida di cui due, infrastrutture sostenibili ed eccellenza normativa, sono fondamentali per garantire che i progetti non diventino un onere finanziario e ambientale o un vero e proprio disastro. Gli altri principi sono innovazione, logistica senza soluzione di continuità e mobilità delle persone. Nel frattempo, lo scorso novembre a Singapore è stato adottato il progetto ASEAN-China Strategic Partnership Vision 2030, che, tra le altre cose, esorta entrambe le parti a “rafforzare la lotta alla corruzione tramite meccanismi adeguati”.

Vision 2030 invita inoltre ad armonizzare le priorità comuni di BRI e MPAC 2025. Se vogliamo dare un senso a queste dichiarazioni e prendere in parola quanto affermato dalla Cina in occasione del Belt and Road Forum, è certamente opportuno che l’ASEAN e la Cina uniscano le forze per garantire il successo dei progetti BRI per tutte le parti coinvolte. In questo modo si eviterebbero quei problemi che (per limitarsi alla regione) hanno afflitto l’ECRL, causato l’arresto del progetto ferroviario Yangon-Mandalay, lasciato incompiuto il piano della ferrovia ad alta velocità Jakarta-Bandung e portato a 6 miliardi di dollari (il 40 percento del PIL del Laos) il costo per il collegamento ferroviario Vientiane-Kunming.

Un’indagine condotta lo scorso anno ha rivelato che dei 1814 progetti che si potrebbero ascrivere alla BRI in 78 paesi, 270 erano stati annullati, sospesi o arrestati, una percentuale di fallimento del 15 percento. Peggio ancora, in termini di valore si tratta del 32 percento: un dato non lusinghiero per un’iniziativa così visionaria e promettente. Spetta all’ASEAN e alla Cina far risalire il tasso di successo nel sud-est asiatico con le loro strette relazioni economiche e i numerosi impegni a consolidarle, anche tramite la connettività e lo sviluppo di infrastrutture nell’ambito della BRI.

Vista la maggiore disponibilità di Pechino a correggere i difetti nell’esecuzione dei progetti BRI, è opportuno che l’ASEAN induca la Cina a ottenere un risultato positivo su una questione che, a differenza delle contese sul Mar Cinese Meridionale, trova tutti d’accordo. Gli investimenti infrastrutturali nella regione sono insufficienti dai tempi della crisi finanziaria asiatica del 1998. Secondo AMRO (ASEAN + 3 Macroeconomic Research Office), il tasso di investimento si è attestato al 2,5 percento del PIL, mentre dovrebbe essere pari al 6 percento.

Lo scetticismo dell’UE e l’opposizione USA

Il successo della BRI nel sud-est asiatico potrebbe contribuire efficacemente a ottenere riscatto altrove, in particolare nell’UE, che continua a essere scettica ma sarebbe intenzionata a prendervi parte se l’attuazione dei progetti BRI rispettasse le norme internazionali e le migliori pratiche, cosa che la Cina garantisce per il futuro.

Rimane l’opposizione degli americani, che vedono nella Nuova Via della Seta il grande piano cinese per dominare il mondo tramite la trappola del debito. Viene da chiedersi come sarebbe considerata la BRI in assenza di questa trappola. Quando nel 2016 la Cina ha lanciato la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (AIIB), gli americani hanno obiettato che non sarebbe stata all’altezza degli standard internazionali della finanza di progetto. Al contrario, la banca si è dimostrata piuttosto tradizionalista e ora conta 70 membri, tra cui alcuni dei più stretti alleati degli USA.

Sulla questione dell’AIIB, gli Stati Uniti sono isolati. Lo resterebbero anche sul fronte BRI, se l’iniziativa andasse per il meglio? Gli USA, che non hanno saputo reagire in maniera adeguata all’ascesa della Cina, farebbero meglio a non mostrarsi reazionari. Nella regione, è la Cina a dettare le regole del gioco, mentre dalle retrovie gli americani suggeriscono agli altri paesi di non seguire la potenza emergente, senza però offrire una chiara contro-strategia.

Più che dalle conseguenze geopolitiche, i paesi del sud-est asiatico sono attratti dai vantaggi economici promessi dalla BRI grazie allo sviluppo infrastrutturale e al potenziamento della connettività. Anche se la maggior parte di essi preferirebbe una presenza americana nella regione per controbilanciare quella cinese, l’assenza di iniziative di sviluppo di qualsiasi tipo da parte statunitense fa perdere terreno agli USA, il cui impegno e le cui politiche rimangono imprevedibili.

La Cina, al contrario, è profondamente impegnata nella regione. Non che gli altri paesi del sud-est asiatico le si siano arresi, ma la sua forte presenza economica è un dato di fatto. A tal fine, occorrono leader onesti che collaborino con la Cina (o del resto, con qualsiasi altra parte) in maniera trasparente, conformemente alle migliori pratiche e alle norme internazionali.

Nicolo Sartori
Informazioni su Nicolo Sartori 58 Articoli
Nicolò Sartori è senior fellow e responsabile del Programma Energia dello IAI (Istituto Affari Internazionali), dove coordina progetti sui temi della sicurezza energetica, con particolare attenzione sulla dimensione esterna della politica energetica italiana ed europea.. La sua attività si concentra in particolare sull’evoluzione delle tecnologie nel settore energetico. Ha lavorato inoltre come Consulente di Facoltà al NATO Defense College di Roma, dove ha svolto ricerche sul ruolo dell’Alleanza Atlantica nelle questioni di sicurezza energetica.

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