I centri per i migranti in Albania sono un flop e non dipende solo dalla magistratura

I due centri per i migranti che l’Italia ha costruito in Albania si sono rivelati un fallimento su tutta la linea. Il flop non dipende solo dall’ostruzionismo della magistratura, come sostenuto dalla maggioranza di governo, ma anche dalla natura stessa del progetto. Se anche avessero funzionato a pieno regime, avrebbero potuto ospitare al massimo 3.000 persone, una goccia nel mare dei flussi migratori (oltre 66.000 migranti sbarcati in Italia nel 2024).


Alla prova dei fatti il “modello Albania” su cui il governo Meloni ha tanto puntato fatica a decollare. Un modello mai sperimentato altrove, che solleva diverse questioni legali e rischia di trasformarsi in un “suicidio mediatico per il governo”, come afferma l’avvocato Salvatore Fachile, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

Accordo Italia-Albania: cosa prevede?

Il “Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, convalidato dalla Corte costituzionale di Tirana lo scorso gennaio e ratificato dai parlamenti dei due Paesi il mese successivo, prevede la cessione delle due aree situate a Shengjin e Gjader all’Italia “a titolo gratuito” per cinque anni, rinnovabili tacitamente. Le due strutture, una destinata alle procedure d’ingresso, l’altra alla permanenza in attesa della valutazione della domanda d’asilo e dell’eventuale rimpatrio, “sono gestite dalle competenti autorità della parte italiana secondo la pertinente normativa italiana ed europea”: una forma di “colonia detentiva extraterritoriale” – come l’ha definita Luca Masera, professore ordinario di diritto penale presso l’università di Brescia –, dove vige il diritto italiano e dell’Unione europea, nonostante l’Albania non ne faccia parte. 

Solo “maschi adulti”? Chi potrà finire nei centri in Albania

Il protocollo interessa soltanto i migranti che saranno soccorsi in mare dalle autorità italiane, non dalle navi delle ong, e che provengono da paesi che l’Italia considera “sicuri” in virtù dell’elenco stilato dal governo. Questi saranno trasferiti sulla Libra, dove avverrà un primo screening per dividere gli uomini adulti considerati non vulnerabili, che quindi potranno essere portati in Albania, e chi invece dovrà essere sbarcato in Italia (donne, minori, persone vulnerabili). In realtà, nei documenti di gara della prefettura di Roma ottenuti da Altreconomia si chiede al gestore del centro albanese di prevedere “progetti per la gestione del tempo libero dei minori” e “servizi di riabilitazione delle vittime di tortura o di situazioni di grave violenza” nel rispetto della “presenza di situazioni di vulnerabilità e dell’unità dei nuclei familiari”.

Dalla richiesta d’asilo all’espulsione

Una volta arrivati a Shengjin, i richiedenti asilo verranno sottoposti a procedure di identificazione e screening più approfondite nel primo centro allestito a pochi metri dalla banchina e gestito dalla Polizia di Stato italiana. Saranno poi trasferite a Gjader, in un nuovo centro per il trattenimento da 880 posti, circondato da una recinzione alta 5 metri e costantemente sorvegliato dagli agenti italiani per impedire che le persone escano. Qui potranno depositare la richiesta d’asilo, che verranno esaminate a distanza dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma. Le udienze e le interlocuzioni con gli avvocati potranno avvenire esclusivamente online. “Lo stato di fortissimo isolamento in cui vivranno le persone renderà difficilissimo trovare un avvocato di fiducia, e gli avvocati d’ufficio vengono assegnati senza alcuna garanzia di una competenza specifica sul diritto dell’immigrazione – commenta Fachile –. Anche se avessero contatti di avvocati specialisti, molto probabilmente verrà negata la possibilità di sentirli autonomamente, parlare con loro a lungo, scambiare materiali. Il diritto alla difesa è garantito solo sulla carta”. 

In caso di esito negativo, i migranti verranno trasferiti in un centro di permanenza per il rimpatrio (cpr) nella stessa struttura, da 144 posti, nell’attesa dell’espulsione. È anche stato allestito un penitenziario da 20 posti per chi dovesse commettere reati durante la permanenza. E se vale la legge italiana, questo comprenderà anche la “resistenza passiva” in carcere.

Il rischio dello stop alle “procedure di frontiera”

Se Fachile parla di possibile “suicidio mediatico” per il governo è perché il “modello Albania” applica le nuove procedure accelerate di frontiera, introdotte dal governo nel marzo del 2023, su cui più volte negli ultimi mesi la giustizia si è espressa negativamente. In particolare, tra agosto e settembre, i tribunali di Palermo Catania non hanno convalidato il trattenimento di alcuni richiedenti asilo che si trovavano confinati nei centri di Pozzallo Porto Empedocle proprio in virtù di quella norma. “Se il governo dovesse applicare in Albania la normativa sulle procedure accelerate di frontiera così come ha fatto finora in Italia, c’è una forte probabilità che il tribunale di Roma (a cui è stata assegnata la competenza per i centri albanesi, ndrnon convalidi i trattenimenti come hanno fatto quelli siciliani. A quel punto sarebbe necessario rilasciare quelle persone e riaccompagnarle sul territorio italiano. Sarebbe il fallimento totale del ‘modello Albania’”.

Il nodo dei “Paesi sicuri”

In particolare, i tribunali hanno contestato l’utilizzo automatico del criterio del “paese di origine sicuro” che è alla base della procedura accelerata, attribuendo al giudice il compito di valutare criticamente e caso per caso se il paese in questione può effettivamente essere considerato sicuro, indipendentemente dal fatto che sia incluso o meno nell’elenco del governo.

Sulla stessa questione si è espressa lo scorso 4 ottobre anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, affermando che uno Stato può essere definito sicuro soltanto se rischi di persecuzioni, violenze e violazioni dei diritti sono assenti “in modo generale e uniforme” su tutto il territorio. In altre parole, se ci sono porzioni del territorio o gruppi di persone esposti a tali rischi, il paese non può essere considerato sicuro: o lo è per tutti, o non lo è per nessuno. Fare cieco affidamento alla lista del governo, quindi, non basta più: “Se questo pilastro viene meno, cade l’intero impianto della procedura di frontiera”, conclude Fachile.

Nel tentativo di aggirare questo ostacolo, il 21 ottobre 2024 il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto che aggiorna l’elenco dei “paesi di origine sicuri” dandogli forza di legge. Secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, “nel momento in cui l’elenco dei paesi sicuri è inserito in una legge (prima era inserito in un decreto interministeriale, che non ha forza di legge, ndr), il giudice non può disapplicare la legge”. In realtà, in Italia come in tutti i paesi dell’Unione europea i giudici sono tenuti a valutare se le norme nazionali rispettano il diritto comunitario, anche “disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante”, come ha messo nero su bianco la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione sul caso Simmenthal del 1978.

L’incognita espulsioni

Altro ostacolo, questa volta di natura pratica, riguarda il rimpatrio di coloro che dovessero vedere respinta la richiesta d’asilo. Perché il meccanismo funzioni, servono non solo accordi con i paesi di origine, ma anche le capacità logistiche per effettuare i viaggi, che possono avvenire tramite voli charter o commerciali. Difficoltà che si riflettono nei numeri: secondo i dati Eurostat, degli oltre 26mila decreti di espulsione emessi in Italia nel 2023 nei confronti di altrettante persone, soltanto 3270 sono stati eseguiti. Nel caso dell’accordo Roma-Tirana, per l’Italia si aggiunge la difficoltà di coordinarsi, oltre che con il paese d’origine, anche con l’Albania: “Finché i numeri sono simbolici è gestibile – commenta Fachile –, ma quando il sistema dovesse entrare a pieno regime, il rischio è che le persone rimangano rinchiuse nei centri per chissà quanto tempo”.

Considerazioni finali

Al netto della questione giuridica che, come abbiamo visto, ha diversi punti di criticità, l’idea stessa di costruire dei centri per i migranti in Albania per ospitare al massimo 3.000 migranti (a fronte di oltre 66.000 migranti sbarcati in Italia nel 2024) facendo spendere ai contribuenti oltre seicento milioni di euro si è dimostrata uno strumento di propaganda che ha funzionato e continuerà a funzionare fino a quando non verrà smontata la narrazione di aver risolto la questione dell’immigrazione o di averci comunque provato. Questo è un compito che spetterebbe all’opposizione che, come sappiamo, è troppo divisa anche solo per immaginare di contrastare lo storytelling del governo.

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