Il 6 dicembre del 1994 moriva in Grecia, stroncato da un infarto durante le riprese de “Lo sguardo di Ulisse”, Gian Maria Volontè, un monumento del cinema italiano. Un uomo schivo e introverso ma allo stesso tempo generoso, istrionico e dotato di una presenza scenica talmente forte da rimanere impressa anche nella memoria dei suoi detrattori.
L’operaio Lulù Massa e il bandito Cavallero, Enrico Mattei e Lucky Luciano, Aldo Moro versione Todo Modo o Il Caso Moro e l’anarchico Bartolomeo Vanzetti, il conservatore capo della Omicidi di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e il pacifista tenente Ottolenghi di “Uomini contro”.
Questi sono solo alcuni tra i 57 personaggi apparentemente agli antipodi interpretati in appena 23 anni di carriera da Volonté. Mai attore in Italia fu interprete così totale e mimetico di figure dell’attualità politica e della storia, uomini celebri e persone semplici, cercando pervicacemente perfino una funzione “politica” del proprio ruolo professionale che oggi sembra preistoria.
“Non scelgo veramente i miei ruoli: accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema (…) Cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità”, spiegò l’autore in pieno tumulto sociale nei primi anni settanta, “essere attore è una questione di scelta che si pone anzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge alle componenti progressiste di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita”.
Figlio di un comandante delle Brigate Nere morto in carcere in circostanze mai chiarite, l’inqueto Volonté da giovanissimo migra in Francia, sopravvive facendo il manovale e altri lavoretti per poter aiutare la famiglia a Milano, poi tornato in Italia per qualche mese fa il guardarobiere a teatro, infine si iscrive nel ’54 all’Accademia d’arte drammatica di Roma dove oltretutto ottiene giudizi non molto lusinghieri. Nel ’57 l’esordio nello sceneggiato tv “La Foresta pietrificata”, poi subito teatro con il Piccolo di Milano e lo Stabile di Trieste, nel ’65 sarà invece la polizia a bloccare la rappresentazione a Roma de “Il Vicario” in quanto dramma che mette in dubbio l’operato della Chiesa. Ma è nel 1960 che Volonté esordisce al cinema con Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti in una piccola parte di ebreo naufrago.
Nel ’62 il primo ruolo da protagonista in Un uomo da bruciare di Orsini/Taviani, dov’è il sindacalista Carnevale a cui segue Il terrorista di De Bosio – dove interpreta un ingegnere partigiano. Successivamente è il momento degli western di Sergio Leone, Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più (“li ho fatti a uno stadio della mia carriera in cui era necessario che io mi facessi conoscere sul mercato”, dirà il nostro) a cui seguono L’armata Brancaleone con Mario Monicelli, ottimi film di genere con Carlo Lizzani (Lutring e La banda Cavallero) e l’inizio del sodalizio con Elio Petri: A ciascuno il suo (’67); Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (’70) – Oscar come miglior film straniero; La classe operaia va in paradiso (’71); Todo modo (’75).
È l’epoca in cui il ragazzino che leggeva Sartre e Camus incrocia il ’68, interpreta la contro-inchiesta Tre ipotesi sulla morte di Pinelli (a cui si è ispirata Sabina Guzzanti per La trattativa ndr), lavora con Bellocchio, Godard e Francesco Rosi (Il caso Mattei, Uomini contro, Lucky Luciano a cui seguiranno altri titoli negli anni ottanta), diventa consigliere comunale a Roma nelle fila del Pci (1976) scranno abbandonato dopo pochi mesi (nel ’92 ritenterà il seggio alla Camera con il Pds di Occhetto ma finì secondo tra i non eletti ndr): “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia; io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso”
Un cancro al polmone superato con un’operazione chirurgica a fine anni settanta; una moglie e almeno altre cinque compagne tra cui Carla Gravina, da cui ebbe una figlia che non poté riconoscere in quanto sposato provocando un certo scandalo; una Palma d’Oro come miglior attore vinta nel ’83 con “La morte di Mario Ricci” di Claude Goretta e una carriera in tono minore con Luigi Comencini, di nuovo Rosi, Gianni Amelio: “Continuò a fumare anche se stava male, ma non volle mai controfigure”, conclude Montaldo, “La sua felicità era vivere a Velletri, lontano dalla Roma del cinema. Quanto ci manca Gian Maria ancora oggi.
Commenta per primo