Il cinema e il potere: dall’Isola dei cani di Wes Anderson alle visioni di Sorrentino

Spesso animato da una vena romanzesca, il cinema s’interroga da sempre sul potere, sui suoi riti e i suoi misteri. Così due film profondamente differenti come “L’isola dei cani” (“Isle of Dogs”), Orso d’argento per la migliore regia allo statunitense Wes Anderson al Festival del cinema di Berlino 2018, e il dittico “Loro” di Paolo Sorrentino indagano in una chiave artistica antitetica azioni e conseguenze di una gestione arbitraria dell’azione umana, dedita a coltivare privilegi e a escludere chi rema contro.

Dopo “Fantastic Mr. Fox” (2009), uno degli autori più interessanti dell’attuale cinematografia ritorna a girare un’opera d’animazione in stop motion, prendendosi una pausa rispetto a titoli come “I Tenenbaum” (2001) e “Grand Budapest Hotel” (2014). “L’isola dei cani” è il suo nono film e Wes Anderson immerge lo spettatore in un Giappone del futuro, nel 2037, che perseguita e mette ai margini i cani, nel nome di un potere privo di contrappesi e dedito a un consenso plebiscitario. Ironia, cura artigianale dell’inquadratura e senso visivo, suggestioni artistiche e stimoli alla riflessione risultano al servizio di lampi creativi che si oppongono a conformismi e manipolazioni mediatiche.

Con Kurosawa e Myazaki come numi tutelari, si assiste a continui mescolamenti di linguaggi e di generi, a un romanzo di formazione con al centro il dodicenne Atari, pronto a ribellarsi alla violenza degli adulti, e alle figure di cani mai banali e simili alla varietà della psicologia umana. Con più chiavi di lettura, il cinema di Wes Anderson persegue la sua idea di linguaggio filmico e del mondo, non chiudendosi al pessimismo ma aprendo squarci di luce laddove dominano autoritarismi e crudeltà, in uno stato di natura dove pochi esseri lanciano ponti verso l’altro.

La capacità tecnica di tenere insieme dettagli e prospettive, variazioni cromatiche nella fotografia di Tristan Oliver, lentezza riflessiva e accelerazioni narrative nel montaggio di Edward Bursch e Ralph Foster, le musiche raffinate di Alexandre Desplat e il lavoro scenografico, tra storyboard e animazione, trova compimento nella regia di Anderson, che coniuga complessità e apparente semplicità, gusto pittorico dell’inquadratura e situazioni divertenti. Scritto dal regista (anche tra i produttori) a partire da un soggetto firmato con Roman Coppola, Kurichi Nomura e Jason Schwartzman, il film affida nella versione originale le voci dei personaggi a Bill Murray, Edward Norton, Greta Gerwig, Frances McDormand, Scarlett Johansson e Yōko Ono, tra gli altri.

Scrive Gianni Canova: “È un film geometrico, L’isola dei cani. Meglio: un film che fa agire i pupazzi di cani animati in stop motion su un reticolo di linee che confliggono. Curve e rette. Perpendicolari e circolari. Forme. Geometrie. Disegni. Mai come in questo film, (…) Wes Anderson porta il cinema ad essere quasi un artefatto di design: un congegno progettato fin nei minimi dettagli, dove la forma è il primo – anche se non l’unico – contenuto. Vero progetto estetico totale (…). Cinema come invenzione, come sperimentazione di forme, come gioco di incastri, come attrito di linee.”

Se Wes Anderson mantiene un punto di vista critico (ma mai apodittico) nei confronti del reale, utilizzando il futuro per parlare di un oggi dove chi non è gradito alle autorità costituite può finire in luoghi desertificati, Paolo Sorrentino, invece, lascia che l’ambiguità delle immagini richiami un mondo dove il sesso è uno strumento per raggiungere il potere e il godimento è una meta tanto bramata quanto sempre rinviata.

Di conseguenza, la prima parte di “Loro”, in attesa che appaia verso la fine del primo capitolo il Berlusconi incarnato da Toni Servillo, già Andreotti nel premiato a Cannes “Il divo” (2008), ritrova stordimenti e vuoti, estetica e mancanza di solidità dell’essere, con il corpo come involucro esterno di un’anima che non si trova, già evocati nel celebre “La grande bellezza” (2013, Oscar come miglior film straniero). Qui però si colgono punti in comune con la spinta compulsiva, nel segno della cocaina e di una sessualità mai appagata, dello Scorsese di “The Wolf of Wall Street” (2013). Si pensi anche al rapporto dialettico che investe linguaggio filmico, uso dinamico di canzoni e musiche (quello originali sono di Lele Marchitelli) e montaggio di Cristiano Travaglioli.

Emerge un sottobosco guidato dalle ambizioni dell’affarista Sergio Morra (impersonato da Riccardo Scamarcio), in una giostra disperata di uomini e donne in cerca di soldi e successo facili, e Paolo Sorrentino si conferma regista del tempo ipermoderno. In linea con quanto scrive lo psicoanalista Massimo Recalcati in “Cosa resta del padre?” (RaffaelloCortinaEditore, 2011), il film mostra “una psuedoliberazione del desiderio della Legge che finisce per avallare la sua degradazione a puro capriccio, a un godimento compulsivo e sregolato privo di desiderio” perché “quello ipermoderno è il tempo cinico e perverso di un godimento che si vuole libero da ogni vincolo, compreso quello ideologico; è un godimento postideologico.”

Il connubio artistico che lega la regia di Sorrentino e la direzione della fotografia di Luca Bigazzi, da “Le conseguenze dell’amore” (2004) a “The Young Pope” (2016), in “Loro 1” (“loro”: quelli che decidono chi sale e chi scende nell’ascensore del possesso e dell’avidità), offre un affresco a tratti efficace, anche se compiaciuto, di una lussuria mortifera e priva di un erotismo libertario. Il tutto però senza il fascino visivo del romanzesco presente nei film precedenti.

La narrazione non sempre coinvolge e la materia al centro della scena, la carne e l’ossessione di arrivare in cima, in alcuni momenti rischia di avvitarsi su sé stessa prima di dare spazio alla maschera berlusconiana che Toni Servillo affronta in bilico fra mimesi e piccoli scarti verso una dimensione interpretativa fatta di luci e ombre, elementi attrattivi e di repulsione, secondo la sceneggiatura di Sorrentino e di Umberto Contarello, alla loro quarta collaborazione.

Gradualmente, conquista la scena un Silvio Berlusconi pubblico e privato al tempo stesso, nel 2006, detronizzato (non più presidente del Consiglio) e che tenta di riconquistare la moglie, una Veronica Lario affidata a un’intensa Elena Sofia Ricci (le inquadrature con lei, nella sua gabbia dorata, sono tra le più incisive).

Di conseguenza, la seconda parte del romanzo per immagini, in uscita nelle sale dal 10 maggio, potrebbe acquisire più spessore seguendo il punto di vista di uno sguardo libero, non ideologico, sull’uomo Berlusconi, tra ferite sentimentali e l’ossessione per corpi femminili giovani e stereotipati, senza dimenticare la realtà antropologica di ministri, “divinità” del potere, starlette televisive e faccendieri disposti a tutto pur di entrare o rimanere nel mondo di quelli che contano.

La prima impressione, in relazione a “Loro 1”, è quella di una parziale insoddisfazione sia in termini d’invenzione cinematografica sia riguardo alle sfumature psicologiche e al coinvolgimento dello spettatore su un piano più profondo, sebbene non manchino le aperture verso un’inquietudine e una ferocia nichilistica, suggerite dalla cinepresa, e gli elementi d’interesse critico.

Prodotto da Indigo Film, Pathé e France 2 Cinéma, il film vede alternarsi, con Servillo, Scamarcio e Sofia Ricci, Kasia Smutniak (in un personaggio emblema di una bellezza algida e senza illusioni), Euridice Axen (la mediocrità dell’arrivismo), Fabrizio Bentivoglio (in un ruolo grottesco che ricorda i politici del “Divo”), Dario Cantarelli, Alice Pagani (l’innocenza perduta), Roberto De Francesco, Anna Bonaiuto, Ricky Memphis, Roberto Herlitzka, Michela Cescon, Giovanni Esposito, Iaia Forte, Ugo Pagliai. Quasi tutti fantasmi di un mondo tanto vacuo quanto legato alle debolezze della natura umana e alle stratificazioni oscure del potere, con la scenografia di Stefania Cella che cela e mostra senza svelare, al pari della macchina da presa e della fotografia, i luoghi delle presunte decisioni e della menzogna.

Marco Olivieri
Informazioni su Marco Olivieri 26 Articoli
Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

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