Reti per l’internazionalizzazione. E’ quello di cui oggi tutti parlano, ed è anche a nostro avviso una delle leve più importanti su cui puntare oggi per le PMI italiane che da sole, individualmente, non potrebbero mai farcela ad impostare un serio programma di sviluppo internazionale.
E’ una fase storica che ci obbliga a concentrarci su questo tema per far crescere l’export da un lato e garantire il più possibile la sopravvivenza del Made in Italy e delle nostre PMI dall’altro, tema su cui puntano anche molti bandi e finanziamenti agevolati, in uscita in questi mesi in quasi tutte le regioni.
Ma mentre si creano le reti per arrivare al mercato globale in cui il prodotto italiano rimane sempre uno dei più richiesti, soprattutto quello di alta e altissima gamma, mi chiedo chi e come si sta preoccupando del nostro mondo della manifattura parcellizzata in una miriade di piccole imprese contoterziste e di subfornitura, e le ex filiere ancora in vita negli ex distretti, che l’internazionalizzazione, in buona sostanza, non sanno neanche che cosa sia.
Io vengo da questo mondo, un mondo fatto di grandi griffe e di atelier e showroom nelle vie di prestigio delle grandi città della moda, ma anche di piccole e piccolissime imprese e laboratori sparsi su interi territori, piccoli e sperduti avanposti dove il saper fare è sempre stato l’unico patrimonio a disposizione dei “padroni” e degli operai, con una cultura e una qualità perseguite artigianalmente attraverso l’amore e il perfezionamento continuo dei prodotti, dentro i reparti e i laboratori.
E in cui l’unico indice di produttività è ancora, in ultima istanza, rappresentato nient’altro che dal momento in cui è previsto l’arrivo del furgone del committente di turno. In queste manifatture l’orologio appeso alla parete del laboratorio raramente scandisce l’efficienza per le diverse fasi di produzione, ma molto più facilmente il momento in cui, per molte delle donne impegnate in azienda con macchine da cucire e ferri da stiro, bisogna andare a prendere i bambini all’asilo.
Da sempre queste piccolissime aziende assomigliano molto più a delle famiglie che a delle imprese e nessuno sa cosa sia un organigramma, un cronogramma o un funzionigramma. Tutti però conoscono molto bene la parola “aiutarsi” e il lavorare anche di notte, senza nessun particolare indice di produttività da rispettare ma avendo in mente solo la commessa da finire e da consegnare. E’ un paradosso drammatico e sconcertante, ma sono proprio questi rapporti umani padrone/dipendente, che sono nel DNA stesso di queste piccole imprese, che stanno mettendo seriamente in crisi (oltre ovviamente a molti atri fattori) questo mondo manifatturiero, perché è impossibile competere oggi a livello globale se non si adegua un sistema produttivo a sistemi molto più razionali, collegati tra l’altro anche al consumo e alla domanda interna che ormai sono in una crisi drammatica.
Ecco che nella spirale perversa e nel circolo vizioso in cui meno soldi disponibili corrispondono da parte dei consumatori o a rinunce drastiche (vedi il crollo addirittura dei generi alimentari) o a scelte di prodotti importati e di bassa qualità, inizia il declino molto rapido di un mondo produttivo che vede ogni giorno sparire centinaia di piccole realtà, incapaci di trovare un sistema razionale per riadeguare il proprio saper fare a quegli spazi di manovra e a quelle logiche imprescindibili di razionalità ed efficienza necessarie per contrastare l’inarrestabile crollo della domanda (tra l’altro, ripeto, in gran parte interna).
Un sistema che fino a poco tempo fa aveva trovato vita e risposta nella logica dei distretti, ma ora non più, perché ormai anche questi, in molte parti, stanno scomparendo, nel disperato tentativo di adeguarsi ai ritmi e alle logiche della domanda internazionale ormai impazzite, e totalmente irriverenti e indifferenti rispetto agli antichi cicli produttivi che vigevano nei distretti. Impossibile convincere oggi tutto il mondo che la qualità della mainifattura richiede tempi più lunghi rispetto alle catene di montaggio manifatturiere del far east ed è fatta anche di passaggi obbligati più lenti ma molto più accurati (posto che questa accuratezza non sia ormai già patrimonio anche di altri paesi e sistemi produttivi più rapidi). Sarebbe davvero come voler rimettere il dentifricio dentro al tubetto.
Manca un nuovo sistema di raccordo, un sistema di riorganizzazione di un mondo che rispetti il saper fare del singolo ma che consenta di raggiungere la massa critica competitiva necessaria e sufficiente per essere all’altezza di ciò che il mercato richiede in termini di tempistiche e di rapporto qualità/prezzo/prodotto: ricerca, programmazione, efficienza, metodo, innovazione, quick response, razionalizzazione del time to market, filiere corte e anche “prodotti più cognitivi e meno materiali” (Rullani). Manca in sostanza la rete d’impresa.
Tra i tanti ipotetici modelli di sviluppo del sistema manifatturiero italiano ecco quindi che potremmo o veder trasformate le nostre piccole aziende parcellizzate in produttori di livello bassissimo nel tentativo di competere in una guerra di qualità e prezzi al ribasso, sfida già persa in partenza per l’impossibilità di confrontarsi con aziende fuori da qualsiasi controllo e rispetto delle regole seguite in Italia e in Europa (ipotesi non percorribili già solo per i contributi, la fiscalità e i costi sociali che le aziende “in regola” devono sostenere), oppure potremmo immaginarle tutte produttrici di beni extra lusso, inventandoci nuovi brand con una politica di investimenti massiccia di marketing e di ricerca, tentando di mettere a sistema filiere non abituate a questo tipo di performance. E anche questa mi sembra una ipotesi realisticamente non percorribile (se non in minima parte).
La domanda globale sancisce sempre di più l’adeguamento che il mondo della produzione, in qualsiasi paese essa si sviluppi, è costretto oggi a mettere in opera, sperimentando anche vie lontane dalla propria cultura ma che sono senza alternative. E le reti potrebbero aiutarci anche in questo, creando ad esempio centinaia di filiere più o meno grandi, ma molto più “razionalizzate”, molto più mirate a prodotti specializzati (non solo puntando all’alto di gamma ma anche, perché no, di fascia media), con un efficiente controllo delle dinamiche dei costi di produzione, con il ricorso molto più massiccio alle economie di scala e con l’utilizzo condiviso di marketing e programmazione operativa e finanziaria, e soprattutto meno esposte agli tsunami della globalizzazione.
Piccole roccaforti razionalizzate ed efficienti della produzione, della manifattura e del saper fare, certamente meno umane di un tempo, ma vive.
Ma tutto ciò richiede uno sforzo che non potrà più essere lasciato semplicemente all’energia e all’intraprendenza degli imprenditori, anche se questi si stanno orientando spontaneamente sempre più verso concetti di aggregazione e di unione delle forze e cominciano lentamente a familiarizzare anche con la logica delle reti (scenario impensabile anche solo fino a pochi mesi fa).
A mio parere tutto ciò sarebbe percorribile solo nell’ambito di una vera e propria e forte e decisa politica industriale che si faccia carico, almeno dal punto di vista strutturale, di quelli che sono investimenti non sostenibili dal sistema dei privati: logistica, banda larga, piattaforme e hub di programmazione e pianificazione, centri di ricerca integrati nei territori, sostegno finanziario allo sviluppo di nuovi poli produttivi su cui poi potranno insistere reti d’impresa “mirate” e organizzate su determinate categorie di prodotti e sulla base di indagini di mercato, studi e proiezioni di medio e lungo periodo, poli dove l’aumento della produttività potrà unirsi all’antico saper fare, per sostenere la sopravvivenza della piccola e piccolissima impresa nelle logiche più “teutoniche” della programmazione, dell’organizzazione e dell’efficienza. Scenario certamente più disumano di quello esistito da sempre, ma ormai non più procrastinabile.
Potrà esistere allora un altro modo per far sopravvivere quello sterminato mondo italiano di piccole imprese manifatturiere parcellizzate, sparse in tante provincie italiane, collegate in buona parte ad una domanda interna altrettanto polverizzata, e quindi alla sopravvivenza di uno sterminato mondo di lavoratori ormai sull’orlo del baratro? C’è qualcuno che se ne sta preoccupando, che si sta interrogando su questo mondo manifatturiero completamente allo sbando e in balia della tempesta perfetta globale in chiave economica ?
Cerchiamo di pensarci, ma facciamo presto, perché gli ammortizzatori stanno finendo, le energie non ci sono quasi più, e il tempo su quell’orologio appeso alla parete del laboratorio corre sempre più in fretta, e ormai non aspetta più nessuno.
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